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Channel: Unità d’Italia – Il Fatto Quotidiano

Qui si rifà l’Italia!

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“Qui si rifà l’Italia!” è il titolo (se ricordo bene) di una parte dell’esposizione alle ex Officine Grandi Riparazioni (Ogr) di Torino. Si tratta di una delle iniziative per il 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia organizzate a Torino, prima capitale dell’allora Regno.

Ho approfittato del ponte dei Santi per tornare a Torino e – tra le altre cose – visitare le Ogr. Per chi non lo sapesse alle Ogr una volta si riparavano i treni, per cui l’edificio è piuttosto imponente e i soffitti altissimi. Neanche a dirlo, fa un freddo cane.

Però le diverse parti dell’esposizione sono fatte bene, interessanti per piccoli e grandi e – al netto di una certa pomposità nazionalistica probabilmente impercettibile ai non espatriati – il recupero di questa ex area industriale è sicuramente da elogiare.

A me la cosa che è piaciuta di più è che gli organizzatori, senza volerlo, hanno creato una gigantesca metafora del Paese oggi.

Facendo quello che si fa quando si visita una mostra, cioè guardando quello che è esposto, si vedono pannelli luccicanti, schermi trasparenti, sipari mobili, tecnologie più o meno innovative, decine e decine di schermi piatti di varie dimensioni, insomma una mostra di un certo livello tecnologico/scenografico oltre che culturale.

Guardando oltre, o meglio, o semplicemente in alto, si nota l’edificio: imponente appunto, e bello nella sua gloria decaduta, ma soprattutto non adatto – perché non reso tale – ad ospitare la mostra. Dietro ai pannelli luccicanti i muri sono scrostati come probabilmente lo sono rimasti per anni. Le enormi finestre hanno giusto ottenuto uno spruzzo di schiuma isolante (a vista) per chiudere gli spifferi più grandi. Il tetto non regge la pioggia incessante dei primi giorni di novembre, e ne lascia passare una certa quantità in diversi punti del percorso.

Ci spostiamo nella sezione sull’innovazione, sul futuro. Una ‘stazione’ parla di come le case del futuro saranno ecologiche e risparmieranno (o addirittura produrranno) energia; leggiamo il messaggio battendo i denti per un edificio immenso scaldato alla meglio. Un’altra ‘stazione’ magnifica la digitalizzazione dello Stivale, mentre pannelli luminosi ci sparano dati sui kg di pasta consumati nelle ultime ore, i nati e morti della giornata e altre amenità. Leggiamo stupiti a fianco di un aereo solare la cui coda è coperta da un telo per ripararlo dalla fontana che, dal tetto, si rovescia proprio sul povero velivolo innovativo. Un’addetta alle pulizie stancamente spalma la pozzanghera sotto l’aereo, non si capisce bene a quale fine.

Quando si cercano i bagni, si scopre che non ce ne sono. Ovvero, nessuno ha pensato di aggiungerli all’edificio. Sono fuori, alla pioggia, prefabbricati e in gran parte guasti.

Prima di rimetterci in cammino verso la macchina (ovviamente niente parcheggio annesso alle Ogr) facciamo pranzo ed ecco l’apoteosi della metafora.

Il ristorante è, in effetti, pieno.

Ma possibile che nessuno abbia pensato alle riforme strutturali?

Disclaimer: Come riportato nella bio, il contenuto di questo e degli altri articoli del mio blog è frutto di opinioni personali e non impegna in alcun modo la Commissione europea.

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L’Italia dei comuni, ducati e principati

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Dante AlighieriQuesta volta le bacchettate sulle dita arrivano dalla Francia: da Slate ci ricordano che se siamo sommersi di problemi è in fondo perchè 150 anni fa ci siamo unificati poco, in fretta e male – e d’altronde non poteva che essere così, trattandosi di un paese diviso fin dai tempi di Giulio Cesare.
Nel semplificare, tuttavia, si corre sempre il rischio di banalizzare. “L’Italia del dopoguerra fu da un certo punto di vista, un gran successo,” scrive Slate. Non la pensava così invece l’ultimo Pasolini, secondo cui il caos italiano è dovuto “alla crisi di ‘crescenza’ dell’Italia, che è passata rapidamente da paese sottosviluppato a paese sviluppato. Tutto questo è avvenuto nell’arco di cinque, sei, sette anni
[il dopoguerra,  ndr]. Sarebbe come prendere una famiglia povera e farla diventare miliardaria, perderebbe la propria identità.”
I vichinghi di Oslo si sentivano distanti da quelli Bergen tanto quanto un pisano da un fiorentino. Nonostante esistano certe radici storiche per le quali noi italiani siamo quello che siamo, non c’è nulla che qualche decennio di educazione al senso civico (leggi: amor proprio) non possa aggiustare. Proprio come è accaduto ai fortunati vichinghi lontani, mentre noi eravamo impegnati ad arricchirci. E basta.

di Lillo Montalto Monella

La fine originale dell’Italia
Pubblicato il 2 dicembre 2011
Autore: David Gilmour*
Testata: Slate
Traduzione a cura di Claudia Marruccelli per Italiadallestero.info

L’Italia è in rovina, sia politicamente sia economicamente. Di fronte a un massiccio debito pubblico e alle defezioni all’interno della propria coalizione in Parlamento, il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, la più importante figura politica al governo dai tempi di Benito Mussolini, a metà novembre ha rassegnato le dimissioni. Ma le preoccupazioni dell’Italia non si riferiscono soltanto alle pietose performance politiche di Berlusconi e alle sue cavolate: nel paese, l’identità nazionale è fragile e sono ormai pochi gli italiani che credono nei suoi miti fondatori. Da qui nascono tutti i problemi.

L’affrettata e maldestra unità d’Italia conseguita nel XIX secolo, seguita dell’era fascista e dalla sconfitta nella seconda Guerra Mondiale nel XX secolo, in effetti ha lasciato il paese privo di senso nazionalistico. Forse la cosa non avrebbe avuto importanza se lo stato post fascista si fosse rivelato un buon direttore d’orchestra dell’economia, ma anche e soprattutto se i cittadini avessero potuto identificarsi e avere fiducia in esso. Ma in questi ultimi 60 anni, la Repubblica italiana non è riuscita ad assicurare una dirigenza efficace, ad affrontare la corruzione, a salvaguardare l’ambiente, neppure a proteggere i propri cittadini dall’oppressione e dalla violenza della mafia, della camorra e di altre organizzazioni criminali. Oggi, nonostante abbia le carte vincenti per farlo, la Repubblica si mostra incapace di tenere le redini dell’economia.

Riuniti in meno di 2 anni

Ci sono voluti 400 anni per vedere i sette regni dell’Inghilterra anglosassone diventarne uno solo, nel X secolo, mentre quasi tutti i territori dei sette stati che componevano l’Italia del XIX secolo furono riuniti in meno di due anni, tra l’estate del 1859 e la primavera del 1861. Il papa fu privato della maggior parte dei suoi territori, la dinastia dei Borboni fu cacciata da Napoli, i duchi dell’Italia centrale persero i propri troni e i re del Piemonte divennero quelli dell’Italia. A quel tempo, la rapidità dell’unificazione fu vista come una sorta di miracolo, un esempio perfetto di popolo patriota che si riunisce e si ribella per cacciare gli oppressori stranieri e i tiranni reali.

Bisogna però constatare che l’unificazione dell’Italia fu portata a termine solo da un gruppetto di patrioti, principalmente giovani del nord provenienti dalla classe media. L’unificazione non avrebbe potuto avere buon esito senza l’aiuto straniero. Le truppe francesi cacciarono gli austriaci dalla Lombardia nel 1859 e una vittoria della Prussia permise al nuovo stato italiano di annettere Venezia nel 1866.

La conquista dell’Italia del sud da parte degli italiani del nord

Nel resto d’Italia, inizialmente le guerre del Risorgimento furono più una serie di guerre civili che battaglie per l’unità e la liberazione. Giuseppe Garibaldi - che aveva partecipato alle guerre d’indipendenza nell’America del Sud – e i volontari garibaldini – le camicie rosse – hanno combattuto con valore ed eroismo in Sicilia e a Napoli nel 1860. Le loro campagne militari erano nient’altro che la conquista dell’Italia del sud da parte degli italiani del nord.

Lo stato dell’Italia meridionale, noto come Regno delle Due Sicilie, si vide quindi imporre le leggi del nord. Quindi Napoli, la città più grande dell’Italia di allora, non si sentì liberata: soltanto 80 napoletani si presentarono volontari per combattere al fianco di Garibaldi. E il popolo dell’Italia meridionale si sentì ben presto frustrato quando la città  cambiò improvvisamente il suo status di capitale di un regno indipendente, durato più di 600 anni, diventando città di provincia. Ancora oggi il suo status politico resta limitato e il PIL del sud rappresenta appena la metà di quello del nord.

L’Italia unita attraversò il laborioso processo di costruzione della nazione e diventò uno stato unitario affrontando solo in parte le questioni locali. Prendiamo per esempio la Germania. Dopo l’unificazione del 1871, il nuovo Reich fu governato da una confederazione che includeva quattro regni e cinque granducati. Invece la penisola italiana fu conquistata in nome del re piemontese Vittorio Emanuele II e poi diventò una versione extra large dell’ex regno piemontese, con la stessa monarchia, la stessa capitale (Torino) e la stessa costituzione. Con l’estensione della legge piemontese a tutta la penisola, molti dei nuovi abitanti del regno si sentirono più conquistati che liberati. Violente rivolte furono brutalmente represse nel sud negli anni 1860.

La diversità italiana era radicata nella storia

La diversità italiana era radicata nella storia e non poteva essere cancellata in pochi anni. Nel V secolo a.C. gli antichi greci parlavano tutti la stessa lingua e si consideravano tutti greci; nello stesso periodo gli abitanti dell’Italia parlavano circa 40 lingue diverse e non avevano alcun sentimento di identità comune. Questa diversità si accentuò ancora di più dopo la caduta dell’impero romano; in quel periodo gli italiani vissero per secoli la realtà dei comuni medievali, delle città stato e dei ducati rinascimentali. Questo spirito campanilistico è ancora vivo: chiedete per esempio ad un pisano come si definisce, probabilmente vi risponderà prima che è pisano e solo dopo italiano o europeo. Molti italiani lo ammettono volentieri: il loro sentimento nazionalista salta fuori solo durante i campionati del mondo di calcio, quando gli azzurri giocano bene.

Altro barometro della diversità italiana: la lingua. Al momento dell’unificazione, secondo gli studi dell’eminente linguista italiano Tullio De Mauro, soltanto il 2.5% della popolazione parlava italiano, cioè il fiorentino nato dalle opere di Dante e Boccaccio. Anche se pare una esagerazione e ammettendo che forse il 10% delle persone comprendesse il fiorentino, resta il fatto che il 90% della popolazione italiana parlava lingue o dialetti regionali che restavano incomprensibili all’interno dello stesso Paese. Persino il re Vittorio Emanuele parlava piemontese quando non usava la sua prima lingua, il francese.

Nell’euforia degli anni 1859-1861, pochi politici italiani si preoccuparono di riflettere sulle complicazioni che avrebbe generato l’unione di popoli così diversi. Massimo D’Azeglio, statista piemontese e pittore, fu uno di questi. Dopo l’unità disse: “Abbiamo fatto l’Italia, ora dobbiamo fare gli italiani”. Dunque per raggiungere questo obiettivo il nuovo governo decise soprattutto di cercare di fare dell’Italia una grande potenza in grado competere a livello militare con la Francia, la Germania e l’impero austro ungarico. Un tentativo destinato a fallire: la nuova nazione era decisamente più povera delle sue rivali.

Creare un sentimento di appartenenza alla nazione

Per 90 anni, fino alla caduta di Mussolini, i dirigenti del Paese furono determinati a creare un sentimento di appartenenza alla nazione trasformando gli italiani in conquistatori e colonialisti. Furono impiegate enormi risorse economiche per finanziare spedizioni in Africa, spesso con risultati disastrosi. Nella battaglia di Adua nel 1896, la giovane nazione fu sconfitta dagli etiopi e, in un solo giorno, fu massacrato lo stesso numero di italiani caduti in tutte le guerre del Risorgimento. Anche se il Paese non aveva nemici in Europa e non aveva bisogno di prendere parte a questo o quel conflitto mondiale, entrò in guerra, in entrambi i casi, nove mesi dopo l’inizio dei conflitti, quando il governo era convinto di aver identificato il vincitore e dopo aver ottenuto promessa di nuovi territori da annettere.

I calcoli sbagliati di Mussolini provocarono la sua caduta e misero fine anche al militarismo italiano e, allo stesso tempo, all’idea di nazione italiana. Nei 50 anni successivi alla seconda guerra mondiale il Paese è stato governato dai democristiani e dai comunisti. I primi si ispiravano al Vaticano, i secondi al Cremlino, ma nessuno di questi due partiti prese a cuore l’idea di suscitare un nuovo senso di identità nazionale per sostituire quello passato.

L’Italia del dopoguerra fu, da un certo punto di vista, un gran successo. Con un tasso di crescita tra i più alti del mondo, il Paese si distinse per le sue innovazioni in settori pacifici e produttivi come cinema, moda e design industriale. Ma i risultati economici furono incostanti e nessun governo fu in grado di ridurre le differenze tra nord e sud.

La struttura portante della nazione ha alcuni difetti

I fallimenti politici ed economici del governo non sono le sole cause del malessere che ormai minaccia la sopravvivenza italiana. La struttura portante della nazione presenta alcuni difetti collegati alle circostanze nelle quali è nato il Paese. La Lega Nord, la terza forza politica italiana, dichiarò che il 150° anniversario dell’unità del Paese, nel mese di marzo 2011, non doveva essere considerato un giorno di festa, ma di lutto. Questo partito non è solo un’aberrazione isolata. La sua xenofobia – e persino il suo razzismo – verso il sud dimostra che l’Italia non si è mai considerata un vero paese unificato.

Il grande politico liberale Giustino Fortunato aveva l’abitudine di dire, citando suo padre, che “l’unificazione dell’Italia è stata un crimine contro la storia e la geografia”. Egli pensava che le forze e le civiltà della penisola erano sempre state regionali e che un governo centralizzato non avrebbe mai funzionato. Con il tempo, fu considerato sempre più un visionario.

E, se l’Italia ha un futuro come nazione unita dopo la crisi, dovrà accettare la realtà della sua nascita problematica e costruire un nuovo modello politico che prenda in considerazione il suo regionalismo intrinseco e millenario. Se stavolta non sarà come la vecchia Italia formata dall’unione di comuni repubblicani, ducati e principati, almeno che sia uno stato federale che rispetti le caratteristiche essenziali della sua storia.

* David Gilmour è uno storico britannico. Autore delle premiate autobiografie di George Curzon, Rudyard Kipling e Giuseppe di Lampedusa. La sua ultima opera “The pursuit of Italy: A history of a land, its regions and their peoples” è stata pubblicata nel mese di ottobre

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A Parma 150 anni di storia d’Italia in 1000 foto (gallery)

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Davanti all’ingresso c’è la statua di Giuseppe Garibaldi, ma questa volta i mille alle sue spalle non sono i suoi uomini armati. L’Italia portata all’unità dall’Eroe dei due mondi è tutta racchiusa nelle stanze del Palazzo del Governatore, nella piazza centrale di Parma, nella mostra “I mille. Scatti per una storia d’Italia” (dal 14 aprile al 10 giugno 2012). Mille come i garibaldini, mille come le fotografie di grandi autori che rivelano altrettanti volti di una nazione. Un’allusione quindi voluta, come spiegano i curatori, perché proprio come i mille, anche gli scatti selezionati dagli archivi del Csac (Centro Studi e Archivio della Comunicazione) dell’Università di Parma, raccontano il percorso dell’Italia dall’unità ai nostri giorni, e proprio per questo l’iniziativa è inserita nell’ambito delle celebrazioni per il centocinquantenario dell’Unità.

Quello che la mostra organizzata dal Csac in collaborazione con il Comune di Parma propone è un percorso in cui si ricorda, si scopre, ci si perde e ci si stupisce attraverso cinque grandi temi: storie, paesaggio, ritratto, lavoro e rituali. Così la narrazione si sviluppa, tra scatti a colori e in bianco e nero, raccontando gli anni dell’Italia, quelli che si studiano sui libri di storia e di cui si fa fatica a riconoscere le immagini, così diverse dalle fotografie a cui si è abituati oggi, e quelli più recenti di cui siamo stati testimoni, che non sembrano nemmeno ancora così passati da rientrare a tutti gli effetti nella “storia”.

Ci sono i ritratti dei senatori del regno del 1861 per la prima riunione a Torino capitale, realizzati dai più importanti atelier fotografici italiani, tra cui Milano, Bologna e Palermo, ma anche da alcuni autori stranieri. Accanto all’Italia nobile e aristocratica, c’è anche quella contadina, dell’estremo Sud raccontato dai fieri volti di briganti e brigantesse, di contadini e donne con il velo sul capo nei borghi di paesini in mezzo al nulla. Nelle Storie raccontate per immagini ci sono le rivolte popolari del 1898 con gli eccidi del generale Bava Beccaris di Luca Comerio, fino alle guerre mondiali e al fascismo, con la popolazione che si trasforma nel modo di vivere e di vestire, per finire raccolta a pezzi nelle bare dopo i bombardamenti.

Altri respiri e altre suggestioni nella sezione dedicata al Paesaggio, in cui si ritrova l’Italia dei monumenti e di un nuovo modo di rappresentare il territorio di Anderson e Alinari, che si evolve e si trasforma con le pubblicazioni del Touring Club di Bruno Stefani. Si passa poi alla fase del realismo e dell’astrazione con Nino Migliori, fino all’arrivo dei media e della pubblicità che contaminano l’arte della fotografia. Nuovi spazi e nuovi modi di rappresentarli si scoprono nei fotocollage di Mario Cresci, che stacca sagome gialle da scatti di paesaggi in bianco e nero, o nelle opere di Olivo Barbieri, Mimmo Jodice e Giovanni Chiaromonte. Dal territorio alle persone il passo è breve, in un’ottica in cui uno Stato è fatto soprattutto da chi ci vive e chi ci lavora. Tra gli scatti dedicati al Lavoro si scorgono i profili delle mondine con le gambe nude, chinate sulle risaie, o i volti dei contadini piegati in campagne sterminate di Federico Patellani, o ancora gli operai in fabbrica, tra il fumo e il vapore, ritratti da Cuchi White e Mario Giacomelli. Specchio di un’Italia che evolve e cambia, ci sono poi i ritratti della collettività nella sezione Rituali: proteste operaie, contestazione giovanile, immagini della classe politica con i fotografi della “scuola romana” come Nicola Sansone. Poi le feste paesane della Campania e le grandi tragedie come il terremoto di Messina, fino ai funerali di Papa Giovanni XXIII e i personaggi della televisione come Sandra Milo, o i ritratti dei poeti Giuseppe Ungaretti e Alda Merini.

Mille fotografie che raccontano l’Italia, la sua storia e la sua identità, fatta di tanti protagonisti diversi immortalati negli scatti di grandi autori che insieme formano il ritratto di uno Stato a 150 anni dalla sua nascita.

Per informazioni: tel. 0521 218929-218669; eventiculturali@comune.parma.it; CSAC: tel. 0521 033652, csac@unipr.it

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Gli studenti ci danno la sveglia

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Italia strano Paese. Abbiamo festeggiato l’anno scorso i centocinquant’anni dell’unità, ma stenta ad emergere un vero senso di identità comune. Ho letto su Facebook un divertente post che simboleggia a mio avviso in modo sintetico ed efficace il cuore della questione: “Per gli italiani, gli italiani sono sempre gli altri”.

Quando ci assumeremo le nostre responsabilità di popolo? Ci siamo fatti governare per molti anni da un pagliaccio erotomane e corrotto che sublimava le nostre frustrazioni di maschi medi con le sue millantate attività erotiche accelerate, ininterrotte e nevrotiche. Ma lo hanno votato anche parecchie donne, cosa ancora più strana. 

Poi, pentiti di tanti eccessi, ci siamo consegnati mani e piedi legati a un banchiere severo che, dall’alto della sua presunta scienza e tecnica, ci ha messo tutti, chi più chi meno in mutande. E, agitando spauracchi di catastrofe, ha tagliato senza colpo ferire pensioni, demolito garanzie sociali, inferto colpi irreversibili a sanità, cultura e istruzione. Il tutto nel plauso pressoché generalizzato di una classe politica indegna, che continuava ad arraffare l’arraffabile, organizzando, con il denaro pubblico rubato ai servizi sociali ed al bene comune, osceni  festini e concedendosi vacanze milionarie ai Caraibi e altrove. Fino all’inevitabile intervento della magistratura, uno dei pochi settori ancora complessivamente sani di questo nostro Paese malato.

E se c’è chi protesta per questo andazzo che risulterebbe insopportabile a chiunque, è pronto il feroce manganello. Come per gli studenti che hanno manifestato venerdì scorso 5 ottobre. Una gioventù cui è stato sottratto ogni futuro dalle politiche dissennate che sono la diretta traduzione delle peggiori teorie neoliberiste e degli interessi diretti delle banche e degli altri attori finanziari, viene umiliata e percossa selvaggiamente per aver protestato.

Decisamente uno come me, che ha lottato negli anni settanta per il sindacato di polizia e ha sempre sostenuto la necessità di non contrapporsi agli agenti in quanto tali, si trova a disagio di fronte agli eccessi di questi robocop che pestano minorenni e li trascinano per strada. 

Intanto la classe politica gozzoviglia o, nel migliore dei casi, si arrovella e bisticcia su primarie, leggi elettorali, tagli ai loro stipendi e pensioni che non ci saranno mai perché, in questo caos senza senso e senza principi che è diventato la vita politica del nostro Paese, l’unica bussola valida sembrano essere, anche e soprattutto per i nostri politici, mediocri yesmen senza cultura e senza progetti, solo gli interessi immediati propri e della propria famiglia e amici stretti.

Ma così si distrugge una democrazia.

Dobbiamo quindi dire grazie agli studenti per aver salvato la dignità del nostro popolo. E augurarsi che ben presto scendano in piazza anche altri per difendere la speranza di una vita diversa da quella che ci propone oggi un governo che non sa fare altro che imporre sacrifici a quelli che i sacrifici li fanno da sempre. E anche i robocop si mettano una mano sulla coscienza e tornino ad essere cittadini consapevoli, comportandosi di conseguenza ed evitando di essere gli strumenti passivi di una repressione senza prospettive.

I giovani hanno paura del futuro, come ha detto uno dei partecipanti alla manifestazione studentesca di Roma. E in effetti un futuro gestito da Monti o da Berlusconi fa paura anche al più coraggioso tra di noi. A dirla tutta, però, non è un problema solo italiano. I giovani che manifestano in difesa del diritto all’istruzione vengono repressi un po’ in tutto il mondo, dal Canada al Cile. Cultura e sapere sono manifestamente un lusso inutile per la cricca di beoti neoliberali che governa il mondo. Del resto, sembrano dire, di che cultura credete abbiamo fatto uso noi per arricchirci alle spalle dell’umanità e del pianeta? Basta essere furbi, disporre di un ammontare adeguato di capitale e via…arraffi chi può! Avanti verso nuove privatizzazioni e si divarichi a più non posso la forbice fra pochi ricchi e moltissimi poveri! Tanto ci pensa la polizia a far tacere gli scontenti…

In Italia però, il nostro governo “tecnico”, sorretto da uno schieramento pressoché unanime di parlamentari, sembra brillare per assoluta incapacità di dare inizio perfino a una parvenza di dialogo con gli studenti. E allora si scatenino i robocop…

L’altra settimana, a piazza Tharir al Cairo stavo contemplando i bei graffiti lasciati dai rivoluzionari, che ci parlano di dignità e ribellione. Un insegnamento da ricavare dalle rivoluzioni arabe, come da ogni rivoluzione, è che un regime che basa solo o prevalentemente sulla repressione la sua sopravvivenza non può andare lontano. Perfino in Italia. Ci vediamo il 20 ottobre alla manifestazione dei lavoratori!

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Il documentario Modena, Italia, near Bologna, in anteprima al Teatro Segni

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Giovedì 1 novembre, alle ore 20.30, nell’ambito di ViaEmiliaDocFest 2012, presso il Teatro dei Segni, in via San Giovanni Bosco 150 a Modena, è in programma la prima nazionale di Modena, Italia, near Bologna di Stefano Cattini e Gualtiero Venturelli.

Un documentario in forma di viaggio (e viceversa) nell’Emilia che c’era, in quella che c’è e in quella che ci sarà, dopo i duri colpi del maggio 2012; ma anche un progetto di lavoro per i prossimi anni, in cerca della storia del tempo presente.

“Modena, Italia, near Bologna” nasce come idea di un mediometraggio da realizzare in  occasione e, in qualche modo a consuntivo, delle celebrazioni del 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia, che a Modena, più che altrove, hanno visto una grande mobilitazione del mondo delle istituzioni e della cultura e una vasta partecipazione della cittadinanza.

Ben presto, però, il progetto si è dilatato e articolato: non solo è stato realizzato un documentario, in forma di viaggio narrato lungo le strade della provincia, che abbraccia una pluralità di luoghi e una imprevista polifonia di voci, ma soprattutto è andata emergendo, nel corso della lavorazione, la possibilità di usare la videocamera e il racconto orale per intercettare la storia nel suo farsi, per cogliere i mutamenti profondi e durevoli della società – modenese, emiliana, italiana – sotto la superficie dell’apparente eterno presente nel quale tutti abbiamo l’illusione (ambizione? dannazione?) di vivere.

“Il terremoto, da questo punto di vista, ha rappresentato una dura, dolente, ma chiara lezione”, spiegano i registi, “esistono un prima e un dopo, delle cose e delle persone, malgrado l’impressione, erronea, di un’eterna sospensione (della politica, dell’economia, della cultura) nel limbo della transizione”.

Dopo la presentazione del documentario e in parallelo alla sua circolazione,  “Modena, Italia, near Bologna” proseguirà come progetto crossmediale che metterà insieme scrittura e cinematografia, spazi materiali e spazi virtuali sul web, per raccontare, senza accademismi e senza nessuna indulgenza verso gli stereotipi, il presente come storia.

Il regista, Stefano Cattini è nato nel 1966 a Carpi (Modena) dove tuttora vive e lavora come filmmaker e come docente presso scuole d’istruzione secondaria. Ha girato il suo primo cortometraggio documentario nel 2004 e ricevuto numerose selezioni nei festival con ‘Ivan e Loriana’, breve film che è all’origine de ‘L’isola dei sordobimbi’, suo primo lungometraggio. Nel 2010 ha ricevuto la candidatura al premio David di Donatello per il miglior film documentario ed è stato invitato a far parte della European Film Academy. “L’ora blu” (2012) è candidato come migliore documentario al 53° Festival dei Popoli. È fondatore dell’associazione culturale Sequence ed è docente di linguaggio audiovisivo presso vari enti.

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Unità d’Italia, a Torino le celebrazioni dei 150 anni lasciano buco di 3,5 milioni

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Tra due giorni la mostra Fare gli italiani chiuderà definitivamente i battenti. È stata una delle vetrine più scintillanti delle celebrazioni per i 150 anni dell’unità d’Italia. “La mostra più bella che abbia mai visto” commentava lo scorso maggio Roberto Saviano, che da quella struttura con Fabio Fazio ha condotto le tre puntate della trasmissione televisiva “Quello che (non) ho”. Fare gli italiani, allestimento multimediale su 150 anni di storia nazionale, è stato infatti il fiore all’occhiello di una Torino prima capitale d’Italia, emozionata e tirata a lucido per l’importante anniversario. La mostra, come molte altre iniziative cittadine, è stata gestita dal Comitato Italia 150, un ente fondato per la grande occasione dal ministero della Cultura, Regione Piemonte, Provincia, Comune di Torino e diversi soci privati. Il Comitato ha davvero pensato a tutto, dai lavori di restauro ai gadgets tricolore dell’anniversario. Ma deve aver sbagliato qualcosa nei suoi calcoli se oggi, calato il sipario, si trova a fare i conti con un mare di debiti.

Il buco di bilancio del Comitato è di 3 milioni e mezzo di euro. Dovuto a due milioni di mancati introiti per la mostra Fare gli italiani e a un contributo governativo che tarda ad arrivare. Cifre alla mano il Comitato ha speso per il ripristino e l’allestimento delle ex Officine grandi riparazioni, stabilimenti delle Ferrovie in disuso che hanno ospitato la mostra, più di 25 milioni di euro. Un’enormità rispetto agli incassi, dato che i visitatori sono stati 700mila e avrebbero dovuto pagare a testa, per avere un saldo in pareggio, circa 35 euro a testa. Alberto Vanelli, vice presidente del Comitato, ha spiegato che il problema sono stati i troppi biglietti scontati e che non c’è da allarmarsi: l’ammontare del buco per il 2012 infatti “è nettamente inferiore a quello di fine 2011, che era pari a 7 milioni 800 mila euro”.

Resta comunque lo scoglio dei fornitori. Dove trovare i soldi per chi ha lavorato ai festeggiamenti e aspetta ancora di essere pagato? Dopo la lunga attesa, la lista di allestitori e piccoli artigiani arrabbiati – ha scritto il giornale piemontese Lo Spiffero – si sta a tal punto allungando che “in qualche studio legale si sta profilando l’idea di riunire tutti i creditori addirittura in un comitato”.

Non sono però solo i piccoli ad essere sul piede di guerra. Il Comitato 150 ha infatti dovuto affrontare il problema di un’ingiunzione di pagamento da parte di Rcs Sport, che pretendeva i pagamento dei 700mila euro pattuiti per il passaggio a Torino del Giro d’Italia nell’anno delle celebrazioni. Si trattava di fondi che sarebbero dovuti arrivare dalla Regione Piemonte e che sono stati liquidati appena in tempo, il 10 ottobre, prima dei previsti pignoramenti. Secondo la fonte giornalistica il ritardo nel saldo è comunque costato alla collettività 76 mila euro in più rispetto alla spesa iniziale. Tra i fornitori arrabbiati c’è poi il Teatro Stabile di Torino, che si è rivolto ai legali per recuperare i suoi 250mila euro, guadagnati “per le attività di allestimento e intrattenimento realizzate in occasione dei festeggiamenti per l’unità d’Italia”. Vanelli intanto ha promesso: verranno pagati tutti entro l’anno.

Al momento la partita è interamente spostata sulla vendita delle ex Ogr, gli stabilimenti delle ferrovie ripristinati a spese del Comitato. Solo questa operazione, grazie alla quale la struttura passerebbe da Ferrovie alla Fondazione Crt, può consentire al Comitato di recuperare i 3 milioni e mezzo di euro e sanare i suoi conti in rosso. L’accordo tra venditore e acquirente però è lontano dall’essere raggiunto. La trattativa procede con tale fatica che il Comune di Torino ha deciso di intervenire per provare a velocizzarne la conclusione. Senza quella vendita il Comitato resta nei guai e la città rischia di sprecare uno spazio espositivo su cui sono stati fatti molti investimenti.

Lo ha spiegato, con un certo trasporto, l’assessore alla cultura del comune di Torino, Maurizio Braccialarghe, che ha definito la vendita necessaria “perché sulle Ogr non cali la notte con un conseguente degrado, per valorizzare gli investimenti realizzati, perché le Ogr rappresentano uno spazio che esiste e che è stato vissuto, avendo ospitato, oltre alla mostra, molte manifestazioni”. Dietro l’enfasi delle parole si profila infatti il rischio che lo scintillante scenario di Fare gli italiani, costato milioni di euro, faccia la fine di certe altre strutture olimpiche, oggi preda dei vandali e dell’abbandono.

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Inno di Mameli, sarà obbligatorio insegnarlo nelle scuole italiane

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L’inno di Mameli verrà insegnato a scuola. E’ legge. Lo ha deciso il Senato approvando in via definitiva il ddl che istituisce anche la “Giornata dell’Unità della Costituzione, dell’inno e della bandiera” il 17 marzo.

Non sarà un giorno festivo, ma una solennità celebrata senza effetti civili e opportunamente ricordata nelle scuole e con iniziative pubbliche allo scopo di promuovere i valori di cittadinanza e di riaffermare l’identità nazionale. Il provvedimento dispone anche che a partire dall’anno scolastico 2012-2013 nelle scuole di ogni ordine e grado saranno organizzati incontri didattici su “Cittadinanza e Costituzione” per riflettere sulla storia e il significato del Risorgimento e sulle vicende che hanno portato all’unità nazionale, alla scelta dell’Inno di Mameli, del Tricolore, e all’approvazione della Costituzione.

Il ddl è stato approvato  con 208 sì, 14 no e due astenuti. Hanno votato a favore tutti i gruppi, a eccezione della Lega nord e della senatrice del Pdl Diana De Feo. Molti senatori leghisti per protesta hanno abbandonato l’aula prima del voto parlando di un provvedimento “inutile, retorico, antistorico, ideologico e coercitivo”.

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Napolitano: “In un momento difficile ritroviamo volontà di riscatto”

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“Ritroviamo insieme orgoglio, fiducia e l’unità necessaria”. E’ l’invito del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in un messaggio per l’Unità d’Italia trasmesso da i principali telegiornali aggiungendo che è necessario “non perdere lo spirito costruttivo e il senso di responsabilità”. Nella Festa dell’Unità d’Italia, il 17 marzo, “nel 2011 in occasione del 150esimo anno ci sono state innumerevoli celebrazioni dalle più solenni, nazionali e internazionali, alle più semplici nelle scuole, nelle associazioni, e nei comuni con vaste e calorose adesione di giovani e cittadini. E’ molto importante non dimenticare quello che esse hanno significato, gli italiani sono consapevoli di ciò che di meglio è stato fatto nella nostra storia”.

“Quel che non va nello Stato, nelle istituzioni, nella politica” va “modificato e riformato” dice il capo dello Stato. ”Siamo oggi noi italiani credo che lo sappiamo bene, di nuovo in un momento difficile e duro, per l’economia che non cresce, per la disoccupazione che aumenta e dilaga tra i giovani, per il Mezzogiorno che resta indietro. Ritroviamo il senso dell’unità necessaria. Unità, volontà di riscatto, voglia di fare e stare insieme nell’interesse generale, senza dividerci in fazioni contrapposte su tutto, senza perdere spirito costruttivo e senso di responsabilità”. 

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Dov’è la vittoria? Maurizio Cucchi e “il cammino di Darwin al contrario”

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Poeta, narratore, critico letterario e traduttore di autori francesi come Stendhal, Mallarmé, Flaubert, Balzac e Prévert, Maurizio Cucchi è anche un attento osservatore della realtà italiana sulla quale ha scritto diversi articoli su molti giornali.

L’inno d’Italia è un testo incomprensibile almeno nella parte più conosciuta e cantata. Un poeta come lei ha un verso per descrivere questo paese?

Io non ho un verso mio però c’è un libretto di Giancarlo Majorino che è un mio amico ed è un poeta importante che si intitola La dittatura dell’ignoranza. Devo dire che il titolo è uno slogan che calza alla perfezione. L’ignoranza non solo è presente ma lo è in modo tronfio, fiera di se stessa, valorizzata, promossa in tutte le forme.

Secondo lei qual è la malattia dell’Italia?

Ci sono tante cose. A parte questa ignoranza che è stata diffusa soprattutto dai media e dalle televisioni a me sembra che una delle cose che mancano al nostro paese sia il senso forte della comunità e un senso della dignità e del decoro. Noi spesso critichiamo i francesi e li tacciamo di sciovinismo. Però loro hanno un’identità nazionale forte che naturalmente deriva da secoli di storia molto più numerosi dei nostri. Da noi sono passati centocinquant’anni e sembra che l’identità nazionale praticamente non esista. Penso che questo sia il sentimento che ci vorrebbe per migliorare tante cose. La furbizia non è necessariamente una virtù. Purtroppo, poi, la nostra cultura di ricerca viene sommersa dai surrogati. Ogni forma espressiva ha il suo: il poeta ha il cantautore e così il musicista. Il cantautore è diventato l’icona pensante del varietà contemporaneo. D’altra parte la funzione espressiva in un contesto di varietà non può che essere affidata a uno che canta canzonette. E ancora: la musica classica è rappresentata da un finto musicista, i giornalistici si definiscono scrittori e storici… Il surrogato trionfa e si arriva al punto di proporre un cantautore al premio Nobel della letteratura.

Leopardi ha scritto: “…Le classi superiori d’Italia sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni. Il popolaccio italiano è il più cinico de’ popolacci”

Direi che oggi è molto più attuale di quanto non potesse essere quando io ero ragazzo. Dopo la guerra c’era una reale volontà di ricostruzione e un senso del servizio al bene comune. Gli uomini sono sempre stati portati al potere, comunque cercavano di incidere con delle idee che potevano essere condivise o meno ma che non erano rivolte essenzialmente al proprio interesse personale. C’era un senso della necessità di costruire qualche cosa di importante e, piano piano, tutto questo si è sgretolato. Se noi confrontiamo i discorsi dei politici ce ne rendiamo ben conto. A parte il fatto che Leopardi parla del cinismo ma qui non c’è neppure il cinismo, mi sembra che i politici ormai siamo diventati dei comici della televisione. Quando vedo queste risse e questi discorsi di basso profilo mi vergogno e dico: ma questi sono i nostri rappresentanti? Partecipano al varietà come attori del varietà stesso? Io vorrei che fossero proibite le partecipazioni dei rappresentanti eletti dal popolo ai talk-show. Ricordo quando ero ragazzo che c’era Tribuna Politica. Adesso vanno ovunque perché sono comici della televisione e come tali sono recepiti dal popolo che li valorizza come buoni o cattivi comici.

La corruzione è un fenomeno dilagante che non s’arresta. Agli italiani manca il senso del bene comune?

Premetto che io sono orgoglioso di essere italiano. Però, con le eccezioni del caso, l’italiano dice: quello lì è un ladro e lo dice con un vago sottofondo di stima se il ladro non viene catturato. Questo produce poca dignità morale e poco decoro nazionale e questo purtroppo è ciò che vedono anche gli stranieri. Sanno che non siamo stupidi ma non si fidano e forse hanno ragione.

Da anni sembra prevalere l’egoismo a tutti i livelli. Quando a suo giudizio è stato messo in crisi il valore della solidarietà?

Una volta ho sentito un politico cattolico di formazione dire che in condizioni di difficoltà complessiva non possiamo distribuire solidarietà. La solidarietà è il primo valore di una società che voglia essere civile, non ci dovrebbe essere bisogno di nessuna ideologia per promuoverla e sentirla come valore primario. D’altra parte se c’è uno che cade per strada la gente si ferma, c’è un senso di partecipazione. È chiaro che se poi si sdoganano dei disvalori come valori, tipo la competitività estrema da cui consegue la sopraffazione dell’altro come virtù, è chiaro che la solidarietà viene recepita come una forma di ingenua generosità arcaica.

Lei si sente italiano oppure in questo paese fa fatica a riconoscersi?

Mi sento italianissimo e sono orgoglioso. Avendo sempre dedicato la mia vita alla letteratura dico che questa è forse la prima cosa che crea un paese come il nostro. Noi leggiamo i siciliani del 1200 che scrivevano in italiano. È vero che dicono che la gente parlava il dialetto ma c’è questa tradizione letteraria fondata sulla lingua e la lingua è molto importante per differenziarsi dalle bestie. Ricordo che una volta ho partecipato alla trasmissione “Uno contro tutti” e c’era Bossi che disse ‘Ma la lingua è proprio così importante?’ Risposi: se vuoi fare un cammino di Darwin alla rovescia…

Milano può tornare ad essere la capitale morale del Paese oppure si è persa?

Sono molto cambiati i tempi. Milano sta dentro il mondo che la condiziona. È chiaro che una persona della mia età tende a privilegiare l’idea del passato ma a me piacciono anche tante cose del presente e vorrei che i valori del passato non venissero buttati via con gli errori. Credo che nel mondo globalizzato sia molto difficile per una città avere ancora una funzione di traino, al di là del fatto che la moneta cattiva scaccia quella buona e noi ce ne siamo accorti. Complessivamente trovo che sia ancora una città civile, oltre che molto bella anche se i milanesi non lo sanno.

Che idea ha dei giovani?

Sono preoccupato quando vado alle colonne di San Lorenzo e vedo centinaia di ragazzi ubriachi con in mano la bottiglia della birra. Quello che mi stupisce è questa omologazione depressa di cui loro non sono colpevoli perché sono pieni di vuoto che cercano di riempire con una falsa socialità e con delle sostanze. Una ragazza una volta, alla mia osservazione che i giovani dicono sempre io e poi fanno tutti le stesse cose, mi ha risposto ‘le facciamo con la convinzione di averle scelte’. Una cosa che il giovane ha sempre avuto di buono è quella di essere bastian contrario. Oggi anche nel linguaggio usano solo parole fecali e sessuali destituite di semantica.

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Sud, con una selezione degna della classe dirigente sarebbe una ‘terra bellissima’

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Il recente intervento di Roberto Saviano ad Annozero di Michele Santoro merita un ascolto attento e qualche necessaria sottolineatura. Saviano ha parlato anche di Sud, spiegando, assai chiaramente, una delle ragioni per cui la cosiddetta Questione meridionale non trovi, finalmente, un suo epilogo positivo.

L’autore campano ha evidenziato il problema essenziale della selezione delle classi dirigenti meridionali. Si tratta di una generalizzazione, ovviamente, ma permette di spiegare come mai certi divari si siano protratti, senza soluzione di continuità, tra Nord e Sud, per tutto il secolo e mezzo di storia unitaria. Parlando della classe dirigente meridionale, Saviano dice una cosa chiara e altrettanto grave. Preferisco citare le parole dello scrittore:

Spesso si viene scelti per la lealtà che si giura, non per capacità, per responsabilità, per creatività e per innovazione. Io ti scelgo perché so che tu mi sarai leale. E perché so che tu, senza di me, sei fuori dai giochi. Se si continua a selezionare così la classe dirigente al Sud, non ci sarà nessun nuovo percorso”.

Uno scenario tanto inquietante quanto verosimile, perfettamente compatibile con una gestione prettamente partitocratica del potere. Per tutti coloro che sono emarginati da questa modalità di gestione del potere l’unica alternativa è l’emigrazione. Occupi un ruolo se sei leale a un patto. Il termine patto, o giuramento, viene dal greco antico òrkos. La liberazione dal patto è indicata in lingua italiana, dalla parola esorcismo. Occorre esorcizzare, dunque, lo status quo, in cui si ignorano o si derubricano sistematicamente le questioni che attanagliano il Sud, danneggiando, di riflesso, tutto il Paese.

I dati statistici, spesso discussi su questo blog, non troveranno mai un’inversione di tendenza se, come dice ancora Saviano: “Il problema vero è che il Sud non interessa più. […] Il problema Sud è già risolto con l’emigrazione. […] Il Sud è ignorato dalla politica italiana”. “L’unica strada è andare via”, mancando il soddisfacimento delle minime sogli dei “diritti minimi”, e quindi le regioni del Sud non pesano più.

L’emigrazione continua, oggi, ad essere la valvola di sfogo demografico che consente di disinnescare le inevitabili tensioni sociali che scaturirebbero dalla permanenza di chi è costretto a cercare lavoro fuori. Al Nord, come all’estero. Ho trovato una conferma a quanto diceva Saviano nelle parole più datate del lucano Ettore Ciccotti, che scrisse un mirabile articolo sull’emigrazione dal Sud, nel 1912. L’emigrazione, dopo l’Unità d’Italia, era assurta a “fenomeno centrale della vita meridionale”, cito le sue parole. “La mancanza della pressione di una popolazione numerosa, poi, […] toglie l’occasione, l’impulso e la forza a quella reazione contro l’ambiente arretrato che più di tutto potrebbero costringerlo a rinnovarsi. L’emigrazione funziona nel Mezzogiorno, in mancanza di salda organizzazione, come uno sciopero immenso, colossale. L’America, anzi, è l’Aventino di quei lavoratori”. Se ai tempi di Ciccotti l’emigrazione riguardava prevalentemente contadini, riguarda oggi laureati e plurititolati, coinvolgendo nel fallimento il tessuto produttivo e tutto il sistema formativo.

Sento, tuttavia, di poter essere ottimista. La conoscenza dei mali che affliggono un territorio è il passo propedeutico alla cura degli stessi. In parallelo, un nuovo fermento culturale e civile va sorgendo nel Sud, specialmente tra le nuove generazioni, in cui cresce la consapevolezza, l’attaccamento al territorio nelle sue declinazioni ambientali e culturali. Sarebbe oggi più difficile occultare i fusti di veleni di varia provenienza sotto la superficie dei fondi agricoli.

Il Sud cambierà. Sarà realizzata la profezia di Paolo Borsellino: “Un giorno questa terra sarà bellissima!”.

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Divario Nord-Sud: tutto iniziò con l’Unità d’Italia. L’incapacità ‘genetica’ non c’entra

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Ancora una volta, gli scritti dei grandi meridionalisti del passato trovano un riscontro perfettamente congruente in studi e ricerche attualissimi. Francesco Saverio Nitti, politico lucano e grande esperto di finanze, ne “Il bilancio dello Stato dal 1862 al 1897” sostenne che l’Italia del Regno delle Due Sicilie portava in dote “minori debiti e più grande ricchezza pubblica”, fino a ricordare che nel primo periodo si ebbe un notevole “esodo di ricchezza dal Sud al Nord”.

Dunque, al contrario di quanto – purtroppo – si continua a leggere e dire a sproposito circa l’incapacità – persino genetica – delle genti del Sud di produrre sviluppo e progresso, lo scenario senza veli e pregiudizi è ben diverso: gli Stati preunitari versavano in condizioni tra loro affini, se non congruenti. La grande soluzione di continuità che innescò la creazione e l’accrescimento del divario tra Nord e Sud del paese furono proprio il processo di unificazione risorgimentale e, soprattutto, le successive politiche in materia di industrializzazione e infrastrutturazione.

In “La finanza italiana e l’Italia meridionale”, ancora Nitti: “Nei venti anni che seguirono l’unità, le più grandi fortune furono fatte quasi esclusivamente dagli imprenditori di opere di Stato: e fra essi non vi erano quasi meridionali, come un documento parlamentare, presentato dall’on Saracco, dimostra a evidenza. La situazione della Valle Padana ha reso più facile la formazione delle industrie, cui la politica finanziaria dello Stato, in una prima fase, e in una seconda le tariffe doganali, hanno preparato l’ambiente; di quasi tutte le industrie di cui lo Stato italiano negli ultimi trenta anni ha voluto assumere la protezione, nessuna quasi è meridionale: dalla siderurgia allo zucchero, dalle industrie navali alle industrie tessili, ecc., tutto è nelle mani degli stessi gruppi capitalistici”. 

E questa è, come si suol dire, storia nota. Cosa oltremodo interessante è scoprire come recenti ricerche condotte dai ricercatori Vittorio Daniele (UniCz) e Paolo Malanima (Cnr) abbiano portato nuovi riscontri scientifici a quanto sosteneva Nitti. Un loro articolo molto interessante del 2013riporta una indagine accurata inerente la nascita e l’evoluzione delle disparità regionali nel nostro paese. Il divario economico tra Nord e Sud come noi lo conosciamo nacque solo alla fine dell’Ottocento. Nel 1861 tutto il paese unificato presentava prevalentemente una economia preindustriale (64% di lavoratori in campo agricolo, la restante parte suddivisa tra industria e servizi). I due scienziati riportano una assenza di differenze significative nello sviluppo industriale, per tutto il primo decennio successivo all’unificazione. Il grafico che riporto, (con il consenso degli autori), mostra chiaramente come il numero dei lavoratori impiegati nell’industria fosse sopra la media nazionale in Lombardia, Liguria, Emilia-Romagna, Toscana, Campania e Sicilia. Già nel grafico che fotografa la situazione del 1911 si assiste alla formazione del “triangolo industriale” in Nord-Ovest.

sviluppo ottocento

Nel 1891, solo il 19% dei lavoratori era impiegato nell’industria (21% al Nord e 16% al Sud). Dunque, il divario industriale era ancora esiguo su base territoriale. Vi erano regioni più e meno industrializzate in tutte le zone del Paese. Nell’articolo viene specificato che la prima grande ondata di emigrazione coinvolse oltre 5 milioni di cittadini italiani provenienti prevalentemente da Veneto, Venezia Giulia e Piemonte, (“relatively underdeveloped areas of the North”). Dopo il 1900, prevalse il numero di emigranti provenienti dal Sud. La concentrazione di industrie nel Nord del Paese si accentuò nel periodo tra le due Guerre. I dati relativi al reddito pro capite sono congruenti con quelli inerenti l’occupazione nell’industria.

industria Nord-Sud

L’immagine di sopra mostra come, rispetto alla media nazionale, il Gdp (cioè Pil) su base regionale era distribuito in modo diverso da come avremmo potuto immaginare: al Sud solo la Calabria e la Basilicata presentavano un Pil pro capite inferiore alla media nazionale, nel 1891. L’ultima immagine che ho tratto dal lavoro di Daniele del 2013, mostra in modo palese come la situazione sia drammaticamente peggiorata in termini di polarizzazione “geografica”, nel corso dei decenni. A 150 anni dall’unificazione, lo scenario è quello che si legge, senza bisogno di commenti, nel grafico sottostante.

divario Nord Sud 2010

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Unione europea, i motivi per scegliere i popoli del Sud (alla faccia dell’olandese)

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Il 25 marzo del 1957 sei paesi si incontrarono a Roma per firmare i trattati riguardanti il mercato comune europeo. Dopo 60 anni si ritroveranno a Roma 28 paesi, la cui maggioranza da anni vive con difficoltà la propria permanenza in questa organizzazione internazionale. Addirittura la Gran Bretagna, mediante un referendum, ha deciso di uscirne lo scorso giugno.

Così come nel caso delle celebrazioni dell’Unità d’Italia del 2011, il rischio è che la retorica si imponga. In Italia nel 1961 si ebbe il coraggio di sottolineare tutto quello che non funzionava e, nel 2011 invece, sia perché i problemi erano aumentati sia perché la politica non aveva alcuna risposta, re Giorgio Napolitano organizzò qualche convegno super-anestetizzato pieno di miele.

Il 2017 europeo non potrà essere così. I problemi sono troppi ed i popoli sono infuriati, anche se non hanno una guida. Unione europea sì o Unione europea no è un falso problema. L’alternativa non è tra euro e lira. L’alternativa non è tra Unione europea e nazione. La soluzione alla crisi europea è decidere se stare con il popolo o con l’élite che governa e che va rovesciata. Decidere se stare con chi lavora e produce la ricchezza o con le banche.

Il ministro degli esteri olandese Jeroen Dijsselbloem non trova affidabili i paesi del Sud Europa (quindi anche l’Italia) perché avremmo speso i soldi dell’Unione “in alcol e donne”.
Al presidente dell’Eurogruppo ha risposto, attualizzando una moderna questione meridionale (dell’Europa) Senso Comune. Con una infografica ormai famosa su “I motivi per scegliere i popoli del Sud Europa” chiariamo di quali colpe vivono i popoli del Sud Europa:

1. Lavorano più ore di quelli del nord, ma rimangono fannulloni;
2. I loro giovani sono ottimi camerieri;
3. Li puoi semi-colonizzare in nome dell’Europa;
4. Comprano elettrodomestici del nord a gogo;
5. Salvano le banche tedesche da bancarotta certa;
6. I loro politici starnazzano un po’, ma alla fine obbediscono sempre

Agli occhi di un sardo che conosce il carattere coloniale delle politiche italiane e savoiarde, non suona strano. Ma ormai la battaglia è a livello europeo. Il tema riguarda se la sovranità deve tornare al popolo e come ci si organizza a livello europeo e mondiale. Il Movimento 5 Stelle non ci aiuta: non ha le idee chiare, cambia gruppi parlamentari europei molto diversi tra loro, ma che in ogni caso stanno con le banche e con le élite. Il referendum sull’euro è una scorciatoia per non presentare un programma sull’Europa.

A noi, popoli del Sud Europa e popoli europei, serve un piano A, ma anche un piano B e un piano C. Il piano A è la riscrittura dei trattati europei, partendo da principi economici e politici chiari. Personalmente ritengo imprescindibile l’introduzione di “uno standard sociale internazionale sui movimenti di capitali”.

Il piano B è una alleanza dei paesi del Mediterraneo, i quali si rendono conto che l’Europa che si sta costruendo (Europa a due velocità, subalternità alla Nato) è completamente sorda alle richieste fatte, e quegli stessi paesi organizzano un proprio livello di relazioni economiche, sociali e politiche internazionali.

Il piano C è immaginare come reagire, da soli, al ricatto di Francoforte e di Bruxelles.

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‘Carlo Felice e i tiranni sabaudi’, la Sardegna degli uomini con meno diritti degli altri

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È già alla terza edizione il libro di Francesco Casula Carlo Felice e i tiranni sabaudi: una casa editrice coraggiosa (Grafica del Parteolla edizioni) e uno studioso che ha dedicato la sua esistenza alla divulgazione e all’approfondimento di temi che i media e le istituzioni, guarda un po’, tengono nascosti. L’aspetto che rende il libro agile, di facile lettura e in alcune parti avvincente è che Casula fa parlare gli storici e i protagonisti di allora.

Il libro di Casula risponde a una domanda semplice: dopo che i Savoia ricevettero, controvoglia, la Sardegna nel 1720, e divennero re, come si comportarono verso quella importante parte del loro regno? La risposta al quesito è semplice, lineare, durissima: la Sardegna venne trattata come un territorio altro rispetto al Piemonte, abitato da uomini che avevano meno diritti rispetto agli altri, culturalmente e socialmente inferiori, i quali dovevano essere trattati in modo tale da mantenere questa inferiorità. Questo pensavano i tiranni sabaudi, e le loro modalità di governo, o meglio di spoliazione, sono la diretta conseguenza della visione ideologica appena tratteggiata.

Girolamo Sotgiu, probabilmente il più grande storico del periodo sabaudo in Sardegna, pur essendo un oppositore della “diversità” dei sardi rispetto agli italiani, non poté non constatare il carattere coloniale dei rapporti tra Piemonte e Sardegna. Di quei rapporti non sono colpevoli coloro che allora abitavano il Piemonte (per carità) bensì i governanti, cioè i Savoia e, successivamente, gran parte della classe dirigente post-1861.

Nel 2011, durante le celebrazioni del 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia, si è persa l’occasione di riflettere criticamente sul Paese e sul processo di “unificazione”. Però si può sempre (ri)cominciare, anche in assenza di una ricorrenza. Se un turista, un italiano o uno straniero, viene in Sardegna, scoprirà che la strada più importante, la SS131, è la “Carlo Felice”. Carlo Felice, detto anche “Carlo feroce” è stato uno dei peggiori, più sanguinari e pigri vice-re di Sardegna.

Un amico studioso ama ripetere che è come se gli israeliani, nel 2200 dedicassero la loro strada più importante a un nazista, magari a Hitler in persona. Certo, questo sarebbe potuto succedere se i nazisti avessero vinto. Dato però che non è giusto che la storia la facciano i vincitori, le persone dotate di senno o almeno di amor proprio che abitano in Sardegna, perché non mettono mai in discussione la memoria che si reifica nei nomi delle strade e delle vie di Sardegna?

A Cagliari, nella piazza più frequentata, svetta la statua di Carlo Felice. Più di sei anni fa proposi, per molti provocatoriamente, di sostituirlo con Giovanni Maria Angioy, il quale “fu il capo […] del movimento anti-feudale sardo. Angioy fece proprie le rivendicazioni delle popolazioni della campagna vessate dai feudatari, e propugnò l’eliminazione delle arcaiche strutture di potere”. Da tempo, un movimento di opinione, che ha presentato anche una petizione, chiede che la statua venga spostata.

In questa fase storica, di disfacimento di un progetto politico (l’Italia), ragionare sulla sua storia secolare e i suoi governanti, ragionare sul suo carattere plurinazionale (l’Italia è insieme alla Francia uno dei paesi europei a non aver ratificato la Carta Europea delle Lingua Minoritarie), fa sicuramente bene ai popoli in cerca di una libertà che Roma non ha fornito, ma anche a Roma stessa.

Il libro di Francesco Casula, che rifiuta ogni razzismo anti-italiano, è un valido contributo per riscrivere veramente la storia, andando contro i tanti tradimenti dei presunti chierici.

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Moneta unica e Mezzogiorno, la lira piemontese è la causa del divario Nord-Sud?

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di Andrea Filocamo*

Dopo la proclamazione dell’Unità d’Italia, il nuovo Regno dovette dotarsi di una moneta unica, dato che nei singoli Stati preunitari circolavano monete differenti. Come in altri ambiti, si scelse il modello sabaudo, adottando nel 1862 la lira piemontese. Un aspetto trascurato dell’unificazione monetaria italiana riguarda il suo possibile effetto sullo sviluppo economico delle diverse aree del Paese. L’unificazione monetaria influenzò il divario tra Nord-Sud? La risposta a questa domanda non soddisfa solo una curiosità accademica. Per alcuni aspetti, l’esperienza italiana può risultare utile per comprendere l’impatto che l’adozione dell’euro ha, oggi, sui divari regionali in Europa.

La teoria delle aree valutarie ottimali, proposta da Robert Mundell nel 1961, rappresenta uno schema utile per verificare se ai Paesi conviene adottare una moneta unica. Secondo questa teoria, un’unione monetaria funziona se presenta alcune condizioni. Tra queste, in particolare, l’elevata mobilità dei fattori di produzione, vale a dire la facilità per i lavoratori di una regione colpita da crisi di trovare occupazione nelle altre regioni.

Ora, se guardiamo al Regno d’Italia del 1861, tale condizione non sembra soddisfatta. Su scala nazionale, la mobilità del lavoro era bassa, nonostante il progressivo incremento delle vie di comunicazione. Per un meridionale era ovviamente più semplice spostarsi all’interno dei confini dell’ex Regno delle due Sicilie che nel resto della Penisola. Proprio l’emigrazione transoceanica, che iniziò verso la fine dell’Ottocento, mostrava come un veneto o un calabrese fossero maggiormente attratti dalle Americhe piuttosto che dalle regioni del Nord-Ovest che si andavano industrializzando. La ragione fondamentale è che le condizioni economiche delle regioni italiane erano, all’epoca, ancora simili. Di conseguenza, si emigrava all’estero, mentre l’emigrazione interna al paese era ancora modesta.

In assenza di mobilità del fattore lavoro, è molto difficile in un’unione monetaria assorbire i cosiddetti “shock economici asimmetrici“, quelle crisi, cioè, che colpiscono solo alcune regioni lasciando indenni le altre. In presenza di shock asimmetrici, la politica monetaria unica risulta evidentemente inefficace, dal momento che una politica espansiva per sostenere le regioni in recessione indurrebbe inflazione nelle aree non colpite dallo shock, mentre se si volesse privilegiare la stabilità monetaria, si dovrebbero accettare la recessione e la disoccupazione nelle aree più deboli.

C’è chi ha sostenuto che proprio le unioni monetarie ridurrebbero la probabilità che si verifichino shock asimmetrici. L’unione monetaria accrescerebbe, infatti, gli scambi commerciali tra gli Stati o le Regioni aderenti, sicché le loro economie ne risulterebbero coordinate. A questo punto, una politica monetaria unica sarebbe efficace. Un’argomentazione che appare oggi discutibile, alla luce dell’andamento degli scambi commerciali nell’attuale area euro.

Ma c’è un altro aspetto da considerare. In un’unione monetaria, i fattori produttivi (soprattutto il capitale) possono facilmente spostarsi nelle aree in espansione, con mercato più ampio o con elevata specializzazione produttiva. Come risultato, l’integrazione economica e monetaria tende a far crescere, insieme alla specializzazione, anche le differenze regionali.

A ben vedere, si tratta di un meccanismo che troviamo in azione in Italia nell’Ottocento. 

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*Ricercatore t.d. di Storia economica dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria

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Bunga bunga, escort, doppia morale: così Verdi il “tricolore” da 150 anni spiega l’Italia agli italiani (che non sempre hanno capito)

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Le corna che fanno male più al nome che al cuore. Le cene eleganti e i cortigiani vili, adoranti intorno al governante, che peraltro se ne frega di governare. Le escort mantenute e poi allontanate dai parenti del consumatore finale. Il cazzeggio fine a se stesso del vitellone fino a un’età ormai stramatura. Le donne, poi, trattate come soprammobili: da usare e gettare, da possedere non solo nel senso carnale ma anche come proprietà privata, anzi di più, da dileggiare, da trattare come corpi senza testa, privi di coscienza di sé. Su quel popolo di ipocriti, perbenisti, rammolliti, doppiomoralistimisogini, anzi veri maschilisti, che poi siamo noi, c’era già tutto spiegato: sarebbe bastato – o meglio basterebbe ancora – osservarlo, ascoltarlo, capirlo un po’ meglio. Quel ritrattone, quella foto di gruppo di noi tutti in posa, era già dentro Giuseppe Verdi, il più grande, il più famoso, il più rappresentato, il più cantato, il più patriottico secondo una narrazione vera, ma un po’ indolente. Eppure, forse, mai compreso fino in fondo.

Allora, accanto alle analisi sociologiche e ai libri dei corsi e dei ricorsi storici, proprio la produzione del più grande compositore lirico – il più celebre made in Italy nel mondo insieme al cibo e ai monumenti – diventa il prisma, il google translate, l’esame del sangue per capire perché siamo come siamo. L’unico che poteva riuscire a spiegarlo così bene – con Meno grigi, più Verdi (Garzanti, 156 pagine, 16 euro) – è Alberto Mattioli, giornalista della Stampa, manica a vento del racconto dell’opera in Italia che come con il precedente Anche stasera scrive un libro che si beve. Per farlo usa due arnesi del mestiere. Il primo: destinare la sua conoscenza a diversi livelli di comprensione (chi di lirica sa così così, chi ne sa

“Meno grigi, più Verdi” è lo slogan scritto sul graffito del writer Frode che si trova all’angolo tra via Manzoni e via Verdi, a due passi dal teatro alla Scala

abbastanza, chi ne sa tutto). Il secondo: la forma d’espressione, cioè l’ironia e – viva – il linguaggio del Duemila e non del Cinquanta (dell’Ottocento), primo passo per rendere più vicino alla testa e al cuore di oggi quello che è stato scritto quasi duecento anni fa ma vale per tutti i tempi, che d’altra parte è il dna dell’arte. Così Meno grigi, più Verdi è la storia dell’operista più rappresentato al mondo abbracciata alla storia d’Italia che si stava facendo e che ancora si fa.

Verdi l’antropologo: sincero, lucido, disilluso
Verdi come bioarcheologo del suo popolo, “antropologo di una popolazione dai curiosi usi e costumi”, scrive Mattioli, dallo sguardo “così sincero, quindi anche così disilluso” da affiancarlo a “Machiavelli, Leopardi, Gramsci, Fellini”. Il punto centrale del ragionamento che mette in connessione 10 opere tra le più celebri di Verdi e il mondo e il tempo di oggi è che “non bisogna farsi ingannare dai libretti, che collocano le loro improbabili vicende in un passato favoloso o in terre esotiche”, con quegli strambi abiti di scena. “Chi indossa quei costumi favolosi sono gli italiani di sempre, siamo noi. Le relazioni familiari, il ruolo della donna, le prevaricazioni del potere, gli amori socialmente impossibili”. Come Aida, che per Mattioli alla fine racconta di un ragazzo di buona famiglia, Radamès, che “commette l’imperdonabile errore di innamorarsi della colf immigrata (Aida, appunto, ndr) invece che di un mezzosoprano socialmente compatibile”. E infatti finisce malino perché le regole sociali che Verdi contesta nelle sue opere ne escono vincenti. Come accade spesso nella realtà.

Basta con la figurina: Verdi ci serve per guardarci allo specchio
E’ una rimessa a fuoco dell’immagine di Verdi. Non più la figurina (Verdi col cilindro, Verdi sulle mille lire) da appiccicare come il marchio di qualità – ed ex post – come cantore dell’epos risorgimentale, ma “uno dei pochi intellettuali che hanno raccontato gli italiani per come sono e non per come si credono di essere”. Verdi “è diventato una specie di garante operistico di questa Italia fatta male, una foglia di fico che copre le immancabili vergogne nazionali”. Una specie di consolazione: sì, facciamo un po’ schifo, ma almeno abbiamo Verdi. Lui, che veniva e si rifugiava volentieri nella campagna delle Roncole di Busseto, è sempre rimasto un osservatore lucido come una lama di rasoio mentre guardava il mondo “di fuori”. E per questo, “la venerazione verso il monumento – incalza Mattioli – rende difficile conoscerlo meglio”. Di conoscere, capire Verdi c’è bisogno invece: “Di lui, della sua severità e del suo realismo, del suo pessimismo che non esclude il coraggio, che denuncia il Male per mostrarci il Bene e fa del Bello non un fine ma un mezzo”.

Olgettine e #metoo: Rigoletto
Mattioli nel libro (e cioè Verdi) fa dialogare con la contemporaneità Stiffelio, Traviata, Aida, il Ballo in Maschera. Per tutti può fare da icona Rigoletto, la cui prima scena, annota l’autore, è “un clamoroso bunga bunga sullo sfondo della cena elegante di qualche potente”, ma che rappresenta un’idea, anzi due idee della donna che non possono che suonare familiari, al tempo del #metoo. Da una parte c’è il Duca di Mantova, tenore per antonomasia, che in testa ha solo la ripetitiva e meccanica azione dell’amplesso: considera le donne solo come vagine. “Seduco dunque solo e al di là di questo non c’è nulla” sintetizza Mattioli. E’ lui che intona Questa o quella per me pari sono che rimanda alla scelta delle Olgettine. E’ lui che canta l’aria ultrapop della Donna è mobile, un inno alla misoginia. Non c’entra niente il Don Giovanni di Mozart, fa notare Mattioli, il conquistatore mozartiano ama davvero le donne – corpo e anima – e tra l’altro va sempre in bianco. Invece “il Duca non ama, mai”.

Poi c’è l’altro punto di vista, quello di Rigoletto, il buffone di corte del Duca, la cui figlia – gira e rigira – finisce rapita dallo scopatore indefesso. Rigoletto, che fino a un secondo prima sghignazzava dell’angoscia di mariti, fratelli e padri le cui parenti venivano deflorate dallo stecco ducale, ora va giù di testa. Perché Gilda, la figlia, non è donna-oggetto solo per il Duca – spiega Mattioli – ma anche per il padre, Rigoletto: “L’ideale femminile per lui è quello della reclusa in casa, vergine a oltranza, occupata solo a cucinare, cucire, biascicare rosari”. Insomma: “Per i maschi di quest’opera, per il maschio della sana tradizione nazionale, la donna è santa o puttana”. Vale anche per Violetta, la Traviata. E infatti è Gilda l’eroina, sottolinea Mattioli. Anche quando Rigoletto le fa vedere che il Duca si sta facendo già un’altra, lei insiste: no, papi, io resto innamorata. Si libera, almeno dalla gabbia della casa di bambola, e (aridanghete) ci lascerà le penne.

Verdi l’innovatore (Netflix a teatro)
Ma Meno grigi, più Verdi è anche la storia di Verdi come innovatore della drammaturgia. Uno sperimentatore, che costruisce il Trovatore – per dirne una -, con tutti gli atti che finiscono lasciando gli spettatori “appesi”: “il seguito alla prossima puntata” scrive Mattioli, finché all’ultima scena “tutti i pezzi della storia andranno al loro posto”. Tradotto – absit iniuria verbis – è come una serie su Netflix. “Serviva al pubblico coevo un tipo di narrazione di cui era ghiotto perché vi era avvezzo, tutti i giorni aprendo il giornale”. Ed è questo spirito innovatore – che alla faccia dei rottamatori e dei nuovisti Verdi mantiene fino al Falstaff scritto a quasi ottant’anni – che dovrebbe fare da insegnamento aureo. Quello che bisognerebbe fare, dice Mattioli ribadendo un classico delle sue invettive, “è togliere Verdi dalla teca e metterlo in rapporto con il nostro mondo”. Moderno, aggiunge, “non significa necessariamente mettere Violetta in jeans o fare di Otello un vucumprà: significa semplicemente chiedersi quanto di presente c’è in quel passato, e farlo vedere”. Una missione facile come quella attuale di Mattarella in un ambiente ancora rigido come quello della lirica in Italia, ma “tradire Verdi – afferma Mattioli – è soltanto non farlo parlare al pubblico, mettere uno schermo fra la potenza devastante delle sue storie e la gente“.

Verdi il cantore dell’Unità (che amava l’Italia senza stimarla)
E’, infine, la storia di Verdi politico, tifoso – da liberale repubblicano – delle avventure del Risorgimento tanto da avere toni quasi populisti: “Quando il popolo vuole, non avvi potere assoluto che le possa resistere”. E poi diventa quasi reazionario perché spaventato dalle rivolte di fine Ottocento non più solo per le idee ma soprattutto per il pane. In mezzo, la metamorfosi: capirà che senza i Savoia l’unità d’Italia non sarebbe mai possibile, si ritroverà a piangere come un bambino ai funerali di Cavour, approverà le cannonate di Bava Beccaris. Ma il punto è, dice Mattioli, che Verdi ama l’Italia ma non la stima. “Sa benissimo cosa non funziona e perché, ha ben presente la fragilità del nuovo Stato e le contraddizioni della sua società, l’influenza della Chiesa, l’autoreferenzialità della cultura, la scarsa fiducia nello Stato, il conformismo intellettuale”. Mattioli descrive per esempio La forza del destino come un affrescone quasi neorealista dei pezzi di società italiana. “Sapeva che l’Italia non era quella che si vedeva dagli scranni di Palazzo Carignano o di Palazzo Madama. Sapeva che i libri li leggevano in pochissimi allora come oggi e che per lui e i suoi amici liberali e positivisti la Chiesa era il nemico da abbattere, ma che per molti italiani rappresentava la speranza di un futuro migliore”. Usciva dalla cerchia, insomma, dall’illusione che dà facebook che tutti la pensino come te. In definitiva, “una volta di più, Verdi spiegava agli italiani l’Italia com’era, non come credeva di essere”. Una lezione di metodo utile, oltre 150 anni anni dopo, a parecchi direttori di giornale.

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Regionalismo differenziato, cos’è e quali sono i suoi rischi

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di Sergio Marotta (Università Suor Orsola Benincasa)

Dalle Regioni al federalismo differenziato

Che le Regioni fossero troppo costose per il bilancio dello Stato italiano lo aveva già detto, in Assemblea costituente, Francesco Saverio Nitti che certo di conti pubblici se ne intendeva, essendo stato uno dei massimi studiosi di scienza delle finanze noto e apprezzato in tutta Europa. Eppure lo statista di Melfi non fu ascoltato, come non lo furono Benedetto Croce e Concetto Marchesi, Pietro Nenni e Palmiro Togliatti, Luigi Preti e Fausto Gullo, tutti uniti nell’opposizione all’ordinamento regionale.

Passò la linea del siciliano Gaspare Ambrosini che introduceva una forma di Stato organizzato in Regioni in cui si teneva insieme l’unità della Repubblica e l’autonomia degli enti locali. Alla fine la formula dell’articolo 5 dei Principi fondamentali risultò la seguente: “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”.

Impiegati gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso per passare all’attuazione, con 20 anni di ritardo, degli ordinamenti regionali, si procedette, poi, a un quindicennio di riforme della pubblica amministrazione che iniziarono con la legge sull’ordinamento degli enti locali, la 142 del 1990, che prese il nome dell’allora potentissimo ministro dell’Interno, il democristiano Antonio Gava.

Venne, quindi, il turno delle varie leggi Bassanini dal nome del ministro della Funzione pubblica che le elaborò e, a più riprese, le portò all’approvazione del Parlamento. La prima fu la legge 59 del 1997 che doveva realizzare il federalismo a Costituzione invariata. Era il tempo in cui imperava il verbo della sussidiarietà come forma di avvicinamento del luogo della decisione pubblica al livello più prossimo alla collettività di riferimento. “Sussidiarietà” era la parola magica per realizzare un’azione amministrativa più efficiente, più efficace e più economica.

Alla fine degli anni Novanta si stabilirono anche i nuovi criteri di riparto dei fondi per la sanità che furono riassunti nel decreto legislativo 56 del 2000. Tale importante decreto, pur mantenendo ferma l’idea di un servizio sanitario nazionale, portò a una distribuzione differenziata – e sbilanciata a favore delle Regioni settentrionali – dei fondi per la sanità che costituivano, e costituiscono ancor oggi, la parte più cospicua dei bilanci regionali. Dopodiché la riforma del Titolo V della Costituzione, con la legge costituzionale numero 3 del 2001, approvata in Parlamento con soli quattro voti di maggioranza nell’ultima decisiva votazione e sottoposta a un referendum popolare al quale partecipò poco più del 34% degli aventi diritto, realizzò una nuova forma di regionalismo volta a trasferire alle Regioni poteri, funzioni e competenze paragonabili a quelle più proprie di Stati federali.

In effetti, il nuovo Titolo V della Costituzione, elaborato da una maggioranza di centrosinistra nel tentativo di inseguire gli elettori della Lega, introdusse nell’ordinamento italiano alcuni principi di cosiddetto federalismo fiscale e ribaltò il principio stabilito dai Costituenti secondo cui le competenze non espressamente attribuite ad altro ente dovessero rimanere in capo allo Stato nel suo esatto contrario: ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato doveva spettare alle Regioni e non più allo Stato. In particolare, mentre l’articolo 117 introdusse i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, che dovevano essere uguali per tutti i cittadini, l’articolo 119 cancellava ogni riferimento al Mezzogiorno, introduceva la formula secondo cui gli enti locali compartecipano al gettito dei tributi erariali “riferibile al loro territorio” e istituiva, nel contempo, un fondo di perequazione per i territori con minore capacità fiscale. Insomma si cercava di salvare l’unità dello Stato affermando che, in teoria, i servizi devono essere uguali per tutti, ma si riconosceva che in alcune regioni virtuose – solo perché economicamente più forti – i servizi pubblici potevano essere anche migliori rispetto a quelli previsti dai semplici livelli essenziali.

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Napoli è un mondo a sé. E le auguro di non cambiare

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Napoli da sempre vive del proprio racconto, una narrazione che risente del trauma storico dell’unità d’Italia in cui la città ha perso un’identità nazionale. Napoli è una capitale orfana del proprio regno, un lutto che non abbiamo ancora metabolizzato, come sottolineato dallo storico Marcello Ravveduto. Da allora tutta la produzione culturale partenopea, sprovvista di strutture adeguate, per farsi sentire ha dovuto spesso alzare i toni, diventare sfacciata, scostumata.

Una cultura capace di offrire contemporaneamente il meglio e il peggio di sé; trasformandosi spesso in folclore becero, inventando e interpretando una napoletanità che potesse andare bene per l’Italia unita, come racconta Raffaele La Capria ne L’armonia perduta, ma anche anticipando tendenze con linguaggi e idee nuove, come giustamente afferma Angelo Petrella, lo scrittore che ha aperto il dibattito qualche giorno fa sulle pagine de Il Fatto Quotidiano.

Ma cosa rende unica Napoli? Una città che nei secoli ha accolto ed è stata dominata da tantissime culture, senza mai perdere la propria identità? Ha ragione lo scrittore Pino Aprile quando dice che l’identità non è data dall’essere qualcosa ma dal fare qualcosa in modo originale e cioè nel rendere unico ciò che già esiste: ovvero non è una fiamma da custodire, ma un fuoco vivo che brucia. E Napoli nei secoli ha fatto proprio il cibo, i suoni e le idee che le sono arrivate nel tempo, prima dal mare e poi con i media, assorbendo come una spugna tutto per poi crearne qualcosa di nuovo.

È l’unica città italiana in cui si producono tutti i generi musicali possibili, dal folk all’elettronica, dal rock al pop, dal rap alla musica d’autore, senza mai perdere le proprie radici. Ma non essendoci case discografiche ed editori adeguati, gli artisti napoletani per raggiungere una platea nazionale hanno bisogno sempre di un quid in più che li leghi alla realtà storica.

In questa città tutto deve fare notizia, anche l’arte. È come se non bastasse scrivere belle canzoni e bei libri. È successo per la Napoli del dopoguerra raccontata da Norman Lewis e Anna Maria Ortese, che ha generato i Napoli Centrale del figlio della guerra James Senese, per poi arrivare a Pino Daniele e a tutto il Neapolitan Power, che è esploso davvero dopo il terremoto dell’80.

Poi è arrivato il papà dei neomelodici, Nino D’Angelo, a dare voce alle giovani fasce popolari di tutto l’hinterland napoletano travolte dal boom economico, un artista sdoganato solo dopo anni da Goffredo Fofi. E ancora la Napoli di Peppe Lanzetta, del rinascimento bassoliniano e dei centri sociali che ha partorito la triade: 24grana, 99Posse, Almamegretta e il fenomeno neomelodico capeggiato da Gigi D’Alessio. Nel nuovo millennio la scena rap ha dato voce a Gomorra, ovvero all’inferno della periferia napoletana dove comanda ‘o sistema, fino ad arrivare a Liberato che per arrivare alla stampa nazionale e ai grossi network si è dovuto “inventare” l’anonimato. Da Napoli ci si aspetta sempre qualcosa in più, il fenomeno, l’eccezionalità. E questo l’artista napoletano l’ha imparato bene: infatti spesso finisce per assecondare questa logica.

Negli anni gli artisti partenopei hanno affinato strategie per supplire alla mancanza di un’industria culturale. Anche per questo un cantautore, uno scrittore napoletano non può prescindere dalla propria città, un’autoreferenzialità spesso controproducente. Al punto che se va a vivere fuori Napoli è considerato un traditore. Un partigiano che ha abdicato a una guerra che ci vede soli contro tutti. Un’idealizzazione sciocca e romantica che tanto noi napoletani amiamo raccontarci. Napoli è un mondo a sé, capace di sopravvivere ai suoi eterni mali senza mai risolverli, raccontandoli.

Credo che il miglior augurio che ci si possa fare sia proprio la normalità e non solo per rilanciare la città – come giustamente scrive il giornalista Fabrizio Esposito, in risposta a Petrella. Ma forse c’è ancora una domanda da porsi: qual è il costo di questa normalità? Qualche giorno fa, parlandone con lo scrittore Maurizio De Giovanni, siamo giunti alla conclusione che se il costo è omologarsi al resto d’Italia diventa difficile capire se sia davvero un bene. Se diventare normali significa rinunciare alla nostra unicità, allora forse c’è da augurarsi che non cambi nulla.

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I leoni di Sicilia, la storia dei Florio è il sogno di chi si è fatto da solo

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“Era lì a portata di mano, una storia ricca, incredibile, che dalla Sicilia attraverso il mare porta in tutto il Mediterraneo e negli oceani lontani, ma ancora nessuno aveva pensato di raccontarla”. Stefania Auci descrive così l’inizio della sua avventura letteraria e umana che l’ha portata a riscoprire i Florio, la famiglia che per oltre un secolo ha scritto la storia di Palermo e della Sicilia. Mesi passati in archivio a cercare documenti, fotografie, indizi, racconti, a parlare con chiunque avesse informazioni, visitare i luoghi, le ville sontuose che segnarono la loro potenza e grandezza, così la Auci riesce a far riemergere un’epoca e la narra con un ritmo incalzante nel suo “I leoni di Sicilia. La saga dei Florio”, edito per i tipi di Nord.

Il perché della magia dei libri che scalano le classifiche non è stata ancora spiegato, ma questo volume letteralmente vola vendendo sin da subito migliaia di copie. Segreti, forse, non ce ne sono, perché il pregio di questo romanzo è la forza del racconto. Dapprima venditori di spezie, abili mercanti, armatori, imprenditori del tonno e del vino: l’ascesa dei Florio sembra inarrestabile e incarna il sogno di chi si è fatto da solo con la forza delle braccia e delle idee.

Ignazio e Paolo Florio iniziano la loro avventura a Bagnara, un paesino della Calabria dove l’unica ricchezza è il mare, hanno in società con il cognato una barca con la quale fanno il “traffico”, ma dopo l’ennesimo terremoto che distrugge la loro casa (intenso l’incipit della Auci che lo descrive) decidono di trasferirsi a Palermo, che è già una delle capitali del Mediterraneo.

Nessuno gli dà credito all’inizio, sono solo “bagnaroti”, un marchio che gli rimarrà impresso come il fuoco. Ma i Florio hanno qualcosa in più degli altri, sembrano anticipare le mosse, precorrere i tempi, arrivano per primi, sbaragliano la concorrenza e ci riescono anche quando gli equilibri politici ed economici cambiano, durante le sanguinose rivolte libertarie o le repressioni dei Borboni.

Con l’Unità d’Italia il loro avvocato è un tale Giolitti che gli assicurerà prosperità anche dopo l’avvento piemontese. Non gli viene negato nulla, neppure la nobiltà a lungo inseguita per la quale Vincenzo Florio è disposto persino a rinunciare all’amore. Ma loro sono gente autentica; spietati, è vero, ma sanno anche cedere ai sentimenti, così anche l’amore trionferà.

Insieme ai Paolo, Vincenzo e Ignazio ci sono le donne dei Florio, che sono a mio avviso le vere protagoniste della narrazione, a partire da Giuseppina per arrivare a Giulia, ma senza tralasciare nessuna delle figure femminili. Gran parte della scena è per loro, è nelle loro ansie, aspirazioni, visioni della vita, tanto che a volte la storia imprenditoriale sembra davvero fare da sfondo.

E’ dei personaggi che si innamora il lettore, sono le loro vicende anche minime, le piccole grandi tragedie a far rimanere in sospeso, attendere di voltare pagina per capire che succede. Un mix di storia, sogno, sentimenti: questo è riuscita a fare la Auci, che bene incarna le sue eroine. Ci siamo incontrati per pochi minuti ma l’impressione è chiara: dietro un’accogliente dolcezza le si legge un carattere e una determinazione degna dei “suoi” Florio.

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Istruzione, in Italia pochissimi laureati. Questo Paese si avvia all’obsolescenza (programmata)

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di Andrea Masala

Un dato interessante: il Parlamento della legislatura 2013-2018 è il primo parlamento dall’Unità d’Italia in cui i non laureati sono più dei laureati. Il primo dall’Unità d’Italia: il dato è molto forte e non deve condurci a considerazioni facili o sbagliate.

Prima considerazione facile: è colpa dei 5stelle. Invece gli eletti 5stelle avevano più laureati di tutti gli altri gruppi: probabilmente cognitariato.

Seconda considerazione facile: allora è più rappresentativo della società e più popolare. Qui va visto al rovescio e forse il problema non è un parlamento con pochi laureati ma una società che ha pochissimi laureati. In Italia infatti abbiamo il 26% di laureati (20 per i maschi e 33 per le donne) contro una media europea del 34% (44 le donne). La media europea: ma i Paesi che dovrebbero essere paragonabili al nostro ne hanno più del doppio.

Siamo penultimi, peggio di noi solo la Romania (di pochissimo), ma pure quei pochi laureati non vengono assorbiti dal mercato del lavoro interno, cioè la nostra imprenditoria non assume le competenze, competenze che sono costrette o a lavori sottopagati e sottoqualificati o a emigrare per andare a lavorare per aziende di paesi che hanno il doppio dei nostri laureati, che li impiegano tutti e a cui avanzano anche posti per i nostri.

Sicuramente abbiamo un problema di istruzione, ma deriva da un tessuto produttivo e da un ceto imprenditoriale totalmente refrattario e disinteressato alle alte competenze, che non sa competere su innovazione e sviluppo ma solo su compressione dei salari. Quando si parla di competenze, si dovrebbe partire da qui. Perché tra il bassissimo numero di giovani e il miserrimo numero di laureati il nostro Paese si avvia verso l’obsolescenza, ed è programmata.

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150 anni dalla Breccia di Porta Pia, ma la Chiesa continua ancora a ingerire

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di Valerio Pocar

Quest’anno ricorre il centocinquantesimo anniversario della breccia di Porta Pia. Poche date sono altrettanto importanti nella storia patria e non c’è città che non abbia una via dedicata al XX Settembre, ma da moltissimi anni questa data sembra rimossa dalla memoria collettiva e le celebrazioni sono parecchio in sordina. Forse però la memoria collettiva è più saggia di quella individuale e non senza ragione stima l’evento, che rese fatidica la data, piuttosto che un successo un’occasione perduta. Perduta e non colta al balzo, paradossalmente, da entrambe le parti in conflitto.

Per il Regno d’Italia avrebbe potuto rappresentare l’occasione per dare vita a uno Stato moderno, almeno per quanto riguarda le relazioni tra il potere ecclesiastico e il potere statale, secondo la formula cavourriana “libera Chiesa in libero Stato”. Senza scadere in atteggiamenti di anticlericalismo spesso parolaio e talora anche becero, lo Stato avrebbe potuto operare scelte di laicità senza compromessi. Così non è avvenuto e ancora adesso, a distanza di un secolo e mezzo, la laicità della Repubblica può essere revocata in dubbio, di fatto se non di diritto.

Per la Chiesa cattolica poteva essere l’occasione di liberarsi una volta per tutte del fardello del potere temporale – beninteso lamentandosi dell’abuso che ne la privava e così ottenendo grandiosi risarcimenti – per dedicarsi più fruttuosamente alla missione spirituale. Progetto neppure preso in considerazione dallo spirito di rivalsa di un offeso Pio IX, il quale però dopo Sedan non poteva più contare sui fucili francesi, come vent’anni prima, per riacquistare il potere temporale perduto. Legittimato tanti secoli prima col falso della cosiddetta Donazione di Costantino, il potere temporale sarà poi ripristinato dall’accordo scellerato dei Patti Lateranensi e dalle concessioni del fascismo, coi quali Patti entrambe le occasioni che si erano offerte allo Stato italiano e alla Chiesa cattolica vennero definitivamente rigettate, per lo Stato con le conseguenze delle quali tutti ancora soffriamo, giacché le pretese ecclesiastiche più che dall’intento di rappresentare la guida spirituale del Paese sembrano ispirate dalla volontà d’ingerirsi nelle sue vicende politiche.

[…]

Nel 1929, coi Patti Lateranensi, il regime fascista da un lato ripristinò il potere temporale dei papi tramite la costituzione del più piccolo stato del mondo, la Città del Vaticano, del quale il papa è il sovrano assoluto, l’ultimo rimasto, crediamo, sulla faccia della Terra e, dall’altro lato, introdusse numerosi elementi di clericalismo, quelli che ancora in buon misura ci affliggono.

La commistione tra i due poteri contraddice, almeno così pare a noi, i princìpi che la Chiesa asserisce di porre al fondamento della sua missione. Di questa contraddizione la Chiesa stessa sembra essere stata sempre consapevole, tant’è che nel corso dei secoli santi, teologi e gerarchie ecclesiastiche hanno argomentato nei modi più vari per giustificarla, recando alla fine l’unico argomento che per esercitare adeguatamente il potere spirituale occorre godere anche di un potere temporale. Forse questo argomento poteva avere un senso nell’alto Medioevo, quando l’insufficiente protezione dell’Occidente da parte dell’impero, soprattutto al fine di contrastare i Longobardi, suggerì al vescovo di Roma l’utilità del potere temporale, ma già con la costituzione del Sacro Romano Impero quella giustificazione sarebbe venuta meno. […]

Perché mai il potere temporale dovrebbe rappresentare il sostegno di quello spirituale, oggi? Quando nessun altra religione, tranne quella cattolica, ne sente il bisogno o briga per ottenerlo.

Il nostro paziente lettore potrebbe chiedersi perché ci stia tanto a cuore la critica del potere temporale del vescovo di Roma. Basterebbe rammentare l’ignominiosa origine della rifondazione del potere temporale e la costituzione stessa della Città del Vaticano, marchiata dal connubio tra clericali e fascisti. Basterebbe anche considerare i vantaggi politici ed economici di cui godono, proprio per la facoltà di riferirsi a un capo di Stato (estero), enti e persone che, anziché esercitare attività ispirate esclusivamente alle virtù, teologali e cardinali, alle quali si richiamano, possono sottrarsi a certi doveri cui sono tenuti gli altri cittadini italiani.

Ma forse v’è di più. Nutriamo il sospetto che alla base delle ingerenze nelle faccende della vita pubblica altrui ci sia proprio la tradizione temporale della Chiesa e che in questa tradizione affondi le radici il clericalismo, vuoi di certi ecclesiastici vuoi di certi sedicenti “laici”.

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Cosa unisce ancora noi italiani post-pandemici? Forse una testarda illusione

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L’ha anticipato il Presidente Mattarella nel messaggio di fine anno, sennò alzi la mano chi se ne sarebbe accorto. Centosessant’anni fa, il 17 marzo 1861, Vittorio Emanuele II, sino ad allora re di Sardegna, proclamò ufficialmente l’Unità d’Italia, assumendo per sé e discendenti il titolo di re. C’erano state la seconda guerra d’indipendenza, vinta sull’Austria-Ungheria con l’aiuto determinante della Francia, le annessioni della Lombardia austriaca, i plebisciti nel Centro papalino, la spedizione dei Mille nel Sud borbonico. E fra i grandi Stati europei non siamo neppure riusciti ad arrivare ultimi, sulla strada dell’unificazione: la Germania si aggiunse un decennio dopo. Forse potremmo considerarci ultimi contando anche Trento e Trieste, “redente” solo nel 1918, a prezzo del macello chiamato Grande Guerra. Sarà per questo che molti italiani, ignari della geografia, tendono a confonderle l’una con l’altra.

Inutile girarci attorno: che senso ha, centosessant’anni dopo, in un mondo divenuto piccolissimo e irriconoscibile, celebrare ancora quest’anniversario? Di fatto, la Festa dell’Unità, da non confondere con quella del PCI-PDS-PD, fu istituita cinquant’anni dopo l’unificazione, nel 1911, in un clima di fervente patriottismo poi sfociato nel macello di cui sopra. Quindi fu ancora celebrata con passabile entusiasmo in occasione del centenario, nel 1961: ma c’erano appena state le Olimpiadi di Roma, per non parlare del boom economico. Per i centocinquant’anni, nel 2011, c’è stato un po’ più di movimento, se non altro perché gli storici trovarono il modo di dividersi fra neo-sabaudi e neo-borbonici: che sarebbe come chiedersi, oggi, se preferire Zaia o De Luca. Insomma, essendo quella dell’Unità una festa solo civile, senza sospensione di scuole e lavoro, oggi già sospesi di loro, è difficile persino accorgersene, figurarsi scaldare i cuori

Come la celebreremo stavolta, in piena pandemia? Da remoto, a distanza? Eppure, o forse proprio per questo, le classifiche dei libri sono piene di longseller che identificano in Dante, a settecento anni dalla morte, il padre dell’identità italiana, oppure che si chiedono ancora come sono cambiati i neo-italiani, gli italiani post-pandemici, non in meglio, non in peggio, ma allora chissà. L’unica cosa in cui non cambieremo mai, oltre che nelle preferenze librarie, sta nel fatto che, attribuendoci una storia trimillenaria, mica solo secolare come i più modesti Stati Uniti, abbiamo un tale sproposito di anniversari che è un peccato non approfittarne. Anche quando, come in questo momento, non ci siamo mai sentiti così spaesati: specie noi genovesi-triestini, cittadini del mondo anche perché più lontani degli altri.

In effetti, cosa ci unisce ancora, noi italiani post-pandemici, voglio dire? Non la rete, dove si può essere indifferentemente qui o altrove, con l’unica differenza del fuso orario. Non le città e le Regioni, neppure più tricolori ma almeno quadricolori, per tacere delle sfumature di rosso, seppure amministrate da forze ormai quasi tutte rappresentate nel governo Draghi. Non l’Europa, ritrovata in extremis ma che ci attende al varco, sospettosa sulla nostra capacità di spendere i fondi promessi e nel frattempo incapace di farsi rispettare dalle multinazionali del farmaco.

Ecco, forse a unire noi neo-italiani post-pandemici è solo quanto segue. La ragionevole fiducia che l’Italia riuscirà a darci un piano vaccinale più comprensibile di quello delle diverse Regioni: anche perché non ci vuole molto. La caparbia speranza che l’Italia, ancora lei, presenterà davvero un Recovery Plan sufficiente a giustificare l’arrivo dei fondi europei, ma soprattutto a ridarci uno straccio di normalità. Infine, la testarda illusione che l’Italia, sempre lei, sarà persino capace di restituirci il futuro.

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Va’, pensiero, mini-storia del canto del Nabucco: da (presunto) inno mancato a ossessione leghista (e ritorno). Ma a Verdi piaceva Fratelli d’Italia

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Il centrodestra aveva appena fatto il pienone alle elezioni e così, nel torpore un po’ bovino dell’estate, si alzò Rocco Buttiglione e fece valere tutte le sue mostrine di ministro per le Politiche comunitarie con un temone che fece tremare l’intera Unione europea: l’inno di Mameli va sostituito, disse, è meglio il Va’, pensiero di Giuseppe Verdi. Come accade con le uscite strampalate dei ministri di tutti i tempi la cosa non fu fatta cadere nella sonnolenza di quel luglio di vent’anni fa come carità di patria (è il caso di dire) avrebbe voluto e come la tragedia del G8 di Genova purtroppo si prese la premura di fare di lì a qualche giorno. Al contrario l’uscita di Buttiglione quel giorno fu argomento da prima pagina e alleati di governo e partiti dello schieramento avversario si affollarono per dire la loro. Gli ex missini inviperiti, il compagno di partito di Buttiglione Marco Follini invitò a imparare a memoria il Canto degli Italiani di Mameli e Novaro mentre la compagna e basta, ex ministra dilibertiana, Katia Bellillo, rivendicò di saperlo già a menadito. Francesco Speroni – capo di gabinetto del ministro Umberto Bossi – passò subito alle avvertenze: giù le mani dal Va’, pensiero.

Il coro del Nabucco qualche anno prima infatti era stato infilato in uno dei 9 articoli della cosiddetta “Costituzione transitoria” della cosiddetta Padania. Alcuni giorni prima di quella Costituente che non costituì nulla, Bossi ne aveva dato un’interpretazione un po’ grossier, come da sua abitudine, commentando una rappresentazione all’Arena di Verona, dove peraltro era stato fischiato: “L’hanno fatto bene davvero. In basso gli schiavi, gli ebrei, cioè il popolo, cioè la Padania; in alto il Potere, cioè Scalfaro, cioè quel terun di Di Pietro. Va’, pensiero dovrebbe essere l’inno della Padania, anche se so che la musica è di tutti e c’è tanta gente al sud che ama Verdi. Ma se il Sud capirà che il nemico non è il Nord, ma è Roma, allora capirà anche il significato del Va’ pensiero”. Il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro si prese del tempo prima di rispondere e visto che i leghisti si erano fissati con questa cosa di Verdi da colorare di verde-carroccio alla fine affilò la lama del suo italiano: “Solo la non cultura può portare a ritenere che Va’ pensiero possa essere un canto di divisione e non il canto verdiano dell’aspirazione all’unità della Patria sì bella e perduta”. E c’è da dire che forse si era anche perso Mario Borghezio che in quanto leghista riteneva tutti i diritti riservati sulle note del Nabucco “scritte e pensate da un cuore lombardo”, laddove Verdi – come sanno anche i muri – è nato e lungamente ha vissuto a Busseto, vicino a Parma.

Eppure tutto questo infelice dibattito era già vecchio di dieci anni almeno se è vero che il capo del governo Bettino Craxi una volta confessò al suo ministro della Difesa Giovanni Spadolini che gli sarebbe proprio piaciuto proporre quel coro verdiano come inno al posto quello di Mameli. Il leader repubblicano però gli spiegò con parole più nobili di queste che c’entrava un po’ come il cavolo a merenda perché il Va’ pensiero era pur sempre un canto di dolore, nella fattispecie del popolo di Israele per la patria lontana. Non proprio una cosa da training autogeno di un popolo.

Quante mani a impiastricciare col coro verdiano. E allora: qual è la verità, nient’altro che la verità sul Va’, pensiero, presunto inno mancato? Molto di quello che di fondamentale c’è da sapere si trova in Va’, pensiero (Garzanti, serie Piccoli grandi libri, 64 pagg, 4,90 euro), mini-saggio di Alberto Mattioli, indiscusso e indiscutibile timoniere della musica lirica. Anche in questo caso l’autore usa la sua più grande abilità: spogliare del mito le storie molto terrene che circondano le spettacolari figure e le ganzissime storie del genio tutto italiano del recitar cantando e restituire loro, così, l’essenza autentica e un’immagine ancora più autorevole. Insomma una spolveratina serve a celebrarle meglio e più consapevolmente.

Con la consueta capacità di accompagnare il dominio assoluto delle informazioni con lo stile spumeggiante, quindi, Mattioli fa scoprire al lettore che no, Verdi quando scrisse quel coro della scena quarta della terza parte del Nabucco, nel 1842, non pensava affatto agli italiani soggiogati dai dominatori stranieri ma proprio a quelli che in effetti lo cantano nell’opera, cioè gli Ebrei soggiogati dai dominatori babilonesi.

Gli indizi sono parecchi. Per esempio, come Mattioli aveva già raccontato in Meno grigi più Verdi, il compositore emiliano all’epoca “non aveva ancora una coscienza politica definita”.

Inoltre – punto e partita a Spadolini – per Verdi Va’, pensiero è “un inno di dolore, non di riscossa”. “E bisognerebbe smetterla di bissarlo d’ufficio, anche quando non lo chiede nessuno” frusta come suo solito Mattioli. Per non parlare del fatto che il libretto, firmato dal poeta Temistocle Solera, segue quasi pedissequo un salmo, il 137, del relativo libro dell’Antico Testamento. Più prosaicamente si potrebbe aggiungere, fa notare Mattioli in questo pamphlet, che Nabucco è “umilmente dedicato a Sua Altezza Imperiale la Serenissima Arciduchessa Adelaide d’Austria”, cioè la figlia di Ranieri, cioè il viceré del Lombardo-Veneto fino al ’48 quando appunto accadde un quarantotto e fu sostituito dal feldmaresciallo Josef Radetzky. Cioè gli oppressori.

Verdi insieme ad Arrigo Boito (librettista di Otello e Falstaff) in una foto pubblicata all’epoca dalla “Gazzetta di Parma”

E allora il Verdi risorgimentale dove si nasconde se non nel Coro degli Ebrei e “sui clivi, sui colli / ove olezzano tepide e molli / l’aure dolci del suolo natal?”. Quel lato non è perduto anche se, come scrive Mattioli, un po’ ex post: Verdi “diventò o fu fatto diventare la statua di se stesso”. Dopo l’Unità, sottolinea il libretto, “l’intera storia nazionale venne riletta” in una “luce mitica”, infilandoci anche storie e personaggi “per nulla motivati dall’aspirazione dell’Unità: ‘arruolandoli‘”. Più chiaramente: Verdi al momento giusto tifò Italia, tutta intera e tutta unita (e qui la retorica bossian-leghista prende almeno tre pere), anzi diventa parlamentare – deputato e poi senatore – di quel Regno ai primi vagiti. Ma è solo dopo il successo del Nabucco – e non prima – che assume una consapevolezza civica e politica. Nabucco non nasce risorgimentale, ma lo diventa, ribadisce Mattioli, scavalcando i decenni e poi un paio di secoli, fino a conquistare l’immaginario collettivo, a trasformarsi in “emblema identitario”, “icona dei padri”.

Di un libro così piccolo è giusto raccontare il minimo indispensabile. Ma vale la pena di ricordare, per completezza, che con l’eterna sfida tra Va’, pensiero e il Canto degli Italiani di Goffredo Mameli e Michele Novaro (a proposito, c’è un Piccolo grande libro di Garzanti anche su questo, firmato dallo storico Stefano Pivato) si sono misurati tutti, anche i compositori. Dal punto di vista musicale si può pure dire che non c’è gara: l’Inno di Mameli non piaceva a Giacomo Puccini, non piaceva a Giuseppe Garibaldi. Eppure piaceva a lui, Verdi. Ammesso che ce ne freghi qualcosa, Buttiglione, Craxi, Bellillo, Follini, Speroni e perfino Borghezio sarebbero stati messi tutti d’accordo se avessero avuto migliore sorte i 2 minuti e 25 secondi di Suona la tromba, che ha le parole di Mameli, la musica di Verdi e la commissione (tipo producer) di Giuseppe Mazzini: una sorta di super-gruppo dei Padri della Patria.

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Livorno la rossa? Prima della nascita del Pci: perché e come la “città anarcopopolare” diventò la culla del comunismo italiano

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Livorno non fu un incidente della Storia. La trasformazione in partito del comunismo italiano, quelle poche centinaia di passi tra il teatro Goldoni e lo scalcinato teatro San Marco che fecero la storia d’Italia, non furono frutto del caso. Se ai giorni nostri l’impronta di Livorno la rossa assomiglia ai giorni nostri a uno stampino per ritratti di comodo, approfondire la strada che portò al 1921 suggerisce che non poteva che iniziare lì una storia politica, sociale e umana che sarebbe durata settant’anni. Una città nella quale il comunismo è diventato la declinazione inevitabile di un processo dai tanti nomi, dalle tante facce e dalle tante idee iniziato molto tempo prima, originato dall’humus dai tanti ingredienti dell’ex porto franco, rifugio di tutti gli ultimi d’Europa: gli ebrei perseguitati in Spagna, gli ugonotti cacciati dalla Francia da Luigi XIV e poi schiavi in fuga, criminali con carichi pendenti, debitori incalliti e bancarottieri, ladri e prostitute che con lo scudo delle Leggi Livornine videro garantita la loro libertà. Perché, dunque, fu proprio Livorno a veder nascere il Partito Comunista d’Italia? E’ la domanda a cui cerca di rispondere Livorno 1921 – Dentro e oltre la classe operaia (4Punte edizioni, 144 p., 15 euro), di Olimpia Capitano, storica, ricercatrice, studiosa di global labour history, collaboratrice de ilfattoquotidiano.it.

Popolare, ribelle, sovversiva, libertaria
Livorno comunista è il 1921, certo, ma è quasi di più ciò che c’è prima, sostiene Capitano. “Un prima – scrive – che del comunismo livornese è stato culla e matrice. Un prima in cui ha preso forma un’esperienza del tutto dissonante rispetto alle rappresentazioni posteriori” e cioè “qualcosa di completamente diverso dalla narrazione settaria di un partito di quadri, chiuso e indisponibile a un dialogo più largo”. Gli aggettivi che nello sviluppo del libro più di frequente sono accostati alla storia della città girano sempre intorno a libertaria, spontanea, popolare. Insomma, sottolinea Capitano, la città rossa era tale “soprattutto in quanto popolare, ribelle, sovversiva, aliena a qualsivoglia tipo di autorità costituita e, in un secondo momento, comunista”. Con quelle origini da melting pot volute consapevolmente dai Medici alla fine del Cinquecento per puntare sul nuovo porto del Granducato, “fu naturale per la città trasformarsi nel simbolo del ribellismo anarcopopolare”. Una città nata sulle spalle umili di “senza classe”, scrive Capitano. Nient’affatto facile mescolare culture, religioni, appartenenze, anzi: era una popolazione contraddistinta da “enormi differenze, contraddizioni e conflittualità, ma accomunata da una condizione di forte subalternità rispetto al ristretto nucleo sociale dominante”. Per questo si definì “una comunità storicamente poco incline a sottomettersi a un’unica cultura o all’autorità di governo”.

Ai tempi dei moti
Di rivolte è piena la (giovane) vita di Livorno. Ci volle del bello e del buono, per esempio, agli austriaci nel 1849 per avere ragione di qualche migliaio di ribelli che qui e a Firenze – un anno prima dell’avventurosa Repubblica Romana di Mazzini, Saffi e Armellini – non si accontentarono della Costituzione concessa da Leopoldo II di Lorena, granduca di Toscana, e ottennero un governo democratico, il primo in Italia, sebbene durò il tempo di un’idea. Venne Giuseppe Mazzini in persona ad annunciare la fuga del granduca (format non nuovo tra i sovrani). Agli austriaci questo intenso odore di monarchi ribaltati dal seggiolone vicino a casa propria non piaceva per niente e scesero in forze sulla costa toscana: per ogni combattente livornese si contavano dieci austriaci (per non parlare dello scarto tra gli armamenti). Servirono due giorni, il 10 e l’11 di maggio, perché le truppe austriache potessero avere ragione delle barricate livornesi. Al comando dei rivoltosi c’erano tra gli altri Andrea Sgarallino – che poi sarà tra i molti concittadini che ingrosseranno le file dei Mille di Garibaldi – ed Enrico Bartelloni, eroe risorgimentale che non vide mai l’unità d’Italia. Bottaio, quarant’anni, lo chiamavano il Gatto perché era un campione quando c’era da fuggire sui tetti. Nel momento della disfatta, però, non scelse la via di tegole e camini e rifiutò il disonore della fuga soprattutto perché vide che in quelle ultime ore la violenza austriaca non si accontentava della mera (ri)presa della città. A una guardia che per strada, a un posto di controllo, gli chiese chi fosse e dove andasse, lui rispose con un insulto per farsi arrestare: fu fucilato tre giorni dopo nella Fortezza Vecchia. Secondo alcune fonti la risposta del Gatto alla guardia fu più o meno la seguente: sono Enrico Bartelloni e vo dove cazzo mi pare.

La classe non solo operaia
A questo spirito che oggi qualcuno definirebbe anti-establishment si aggiunse poi lo sviluppo industriale e capitalistico che arricchì il porto ma non necessariamente la gente di Livorno. Qui il proletariato, spiega Capitano, “fu composto solo in parte da salariate e salariati dell’industria”. Era un prisma molto più variopinto formato da operai, navicellai, artigiani, facchini, portuali, barrocciai, pescatori, ferrovieri tessitrici, cenciaiole, corallaie, impagliatrici di fiaschi, filande e ancora ladri e prostitute: “Disoccupate e disoccupati, sottoproletari e sottoproletarie – sottolinea la storica – che condividevano il destino della marginalità e dello sfruttamento”. Una “composizione di classe eterogenea”, aggiunge, che definì “una realtà popolare difficile da assoggettare nel suo complesso”.

Il libro racconta della nascita in città di associazioni dei lavoratori negli anni Settanta dell’Ottocento – con tanto di benedizione di Bakunin in persona – e della nascita di un radicalismo politico che si traduceva nell’anarchismo e, in forma più istituzionale, nel Psi e nel repubblicanesimo intransigente mazziniano. Negli stessi giorni in cui Milano, nel maggio del 1898, insorse per la guerra del pane, Livorno si organizzava con comizi popolari, cortei in strada e scioperi di almeno 8mila tra lavoratrici e lavoratori, “dalle operaie della filanda di lana alle maestranze del cantiere navale Orlando e della Metallurgica”. Tutti i forni della città e dei sobborghi, ricostruisce Capitano, furono assaltati e svuotati in brevissimo tempo. Il 9 maggio venne dichiarato lo stato d’assedio, ma qui per un caso fortunato non c’erano generali stragisti alla Bava Beccaris.

Gli scioperi si moltiplicarono negli anni dell’inizio del Novecento, anche perché il proletariato livornese – ragiona la storica – si organizzò sul piano della rivendicazione sindacale piuttosto che su quello istituzionale. C’erano la fame e la miseria, non c’erano le case e non c’erano i soldi. A un mondo che si faceva sempre più complesso il fronte di sinistra a Livorno rispose – anche in questo anticipando il ’21 – con divisioni e diffidenze reciproche. E però, racconta Capitano, il Psi livornese negli anni Dieci “fu quasi costretto a spostarsi su posizioni e soprattutto su una retorica politica più massimaliste in risposta ai conflitti interni al partito e alla combattività sociale e operaia”. Ne andava dei voti nelle urne, quei pochi, s’intende, che erano ammessi in un tempo in cui il suffragio universale si vedeva solo col cannocchiale. Una svolta di “intransigenza” voluta – per “realismo politico” puntualizza Capitano – dal riformista Giuseppe Emanuele Modigliani, fratello maggiore del più noto, celebrato in tutto il mondo ben dopo la morte.

L’avversione per i poteri forti? Quasi istintiva
Con una sintesi molto efficace Livorno 1921 mette in fila i segmenti del quadro che accompagnerà Livorno fino al 1921, facendola diventare una delle capitali del Biennio rosso, e molto oltre. Da una parte, spiega Capitano, “il radicamento della tradizione anarcoide e la conseguente tendenza all’azione spontanea con una forte spinta sociale alla radicalizzazione politica”. Dall’altra il “sovversivismo”, cioè un “atteggiamento trasversale di radicale e quasi istintiva avversione nei confronti dell’ordine costituito, dei poteri forti, che già aveva animato il popolo minuto protagonista delle rivolte risorgimentali e di molti episodi rivendicativi e di protesta”. Infine tutto questo, sul piano politico, produce “forti tensioni partitiche che si manifestavano tanto tra le forze della sinistra quanto all’interno dei partiti stessi, specialmente quello socialista”. Alla base e all’interno del quale dopo il 1917 continua a rimbalzare la voce: Facciamo come in Russia.

Socialisti, anarchici, mazziniani, comunisti: l’osmosi di Livorno
In mezzo a questa inquietudine c’è la guerra – quella “Grande” – che impoverisce tutti e figurarsi chi povero lo era già prima. Alle elezioni del ’19 il Psi a Livorno vola a oltre la metà dei voti validi: a livello nazionale è condotto dal moderato Filippo Turati, ma in città c’è un pezzo del partito, più impaziente, che continua a sfiorarsi con l’area anarchica, intransigente, garibaldina, repubblicana. L’osmosi tra tutti questi modi di interpretare la realtà – e la volontà di migliorarla – non è un programma politico: è la vita di tutti i giorni. E ora si aggiungeva il comunismo. “Sono sempre stato un ribelle della società – racconta della sua gioventù il militante Emilio Valesini, citato nel libro – ed è per istinto di classe che andavo dai vari partiti di classe. Molte volte mio fratello Armando, socialista, mi portava al partito e spesso andavo al circolo repubblicano di via Pellegrini. Andavo anche al sindacato anarchico, tutto per farmi un’idea di quali erano le strade da percorrere nella mia vita”. Nacquero gruppi comuni, come Spartacus – formato nel quartiere “ribelle” di Ardenza da studenti – che si ispirava già dal nome alla Lega tedesca guidata da Rosa Luxemburg, ma anche come la “Lega proletaria degli invalidi, mutilati e reduci”, in sostanza Arditi di sinistra. Fino all’organizzazione di una guardia rossa, che con l’aumento degli assalti delle squadracce fasciste e la corrispondenza di amorosi sensi dei bastonatori con le forze dell’ordine e militari, divenne l’ultimo baluardo di fronte alla conquista violenta del potere dei mussoliniani: Livorno sarà l’ultima giunta comunale toscana a cadere nelle mani dei fascisti.

1921: perché Livorno
Per tutto questo dunque la scelta di Livorno come sede del congresso del Psi, quella metà di gennaio del 1921, non fu casuale, spiega Capitano: c’erano “ragioni di sicurezza” più “garantite che altrove dall’amministrazione socialista”, ma anche “dalla specificità del tessuto sociale”. Un anno e mezzo prima della Marcia su Roma “lo squadrismo fascista iniziava a mostrare i denti in modo sempre più violento – sottolinea ancora la storica – ma non riusciva a penetrare politicamente nel sostrato cittadino”. Qui neanche il primo fascismo ebbe le sue vaghe promesse “socialisteggianti”, come le definisce l’autrice, ma piuttosto si presentò subito come “un ottimo dispositivo di conservazione delle strutture di potere”: industriali, ufficiali di carriera, le loro rampanti proli. “In questo mondo dove tutti erano accomunati da un precario vivere alla giornata e sovente in contrasto con la legalità e l’ordinamento borghese tendeva a sfumarsi il confine tra proletari e sottoproletari”. Per questo il fascismo, spalleggiato da imprenditori e autorità, non attecchisce.

E’ l’unità contro le soverchierie dell’alleanza tra fascisti e “padroni” che spinge i comunisti livornesi a disobbedire anche alla linea ufficiale del partito a livello nazionale. E continuano a collaborare con le altre formazioni antifasciste. Nell’aprile 1921 promuovono un “Comitato di difesa proletaria“: dentro ci sono sindacati di tutti gli orientamenti (e i più combattivi sono i ferrovieri) e poi socialisti, comunisti, anarchici, gruppi studenteschi. Due mesi dopo nascono gli Arditi del popolo: è un’organizzazione paramilitare e anche in questo caso ci sono tutti, repubblicani compresi. Il Pci nazionale ribatte innervosito, non vuole che ci si mescoli agli altri partiti, scrive una lettera in cui ribadisce la linea. Ma che cade morta. “Giudicammo questo divieto un vero e proprio tradimento – testimonia nel libro Ilio Paperi, un militante – Lo respingemmo come assurdo e allora il compagno Barontini ci consigliò: quelli che ormai ci sono restino negli Arditi del popolo; ma operate da furbi e non compromettete il partito”.

L’assalto fascista alla città, l’ultima a cadere
Tra il 1921 e il 1922 si moltiplicarono scioperi e scontri di piazza tra forze antifasciste da una parte e fascisti sostenuti da carabinieri, guardie regie, esercito. La resistenza era piegata, mese dopo mese, con perquisizioni, rastrellamenti, fermi, sequestri delle armi di fortuna o artigianali: randelli, coltelli, rivoltelle, fucili da caccia, ordigni. Fu la lunga Battaglia di Livorno, come si intitola un altro volume uscito quest’anno, scritto dallo storico Marco Rossi (ed. Bfs, 178 pp., 16 euro). Cortei, scontri di piazza, scioperi, agguati: solo nell’agosto 1922 Livorno cade per effetto dell’azione delle truppe militari, forti dello stato d’assedio firmato dal governo. Il sindaco Uberto Mondolfi – un professore di Lettere, socialista, allievo di Giovanni Pascoli, amico di Amedeo Modigliani – rassegnò le dimissioni sotto le minacce dei fascisti, guidati tra gli altri da Costanzo Ciano, futuro ministro e presidente di quella specie Camera fascista e futuro Ganascia, soprannome nato dal sarcasmo dissacrante dei suoi concittadini per dare memoria imperitura ai suoi appetiti nei confronti cacciucco, baccalà e soprattutto affari frutto dei suoi mille conflitti d’interesse. “Sono le ore 12 – fu la minaccia di Ganascia a Mondolfi e alla giunta Psi-Pci – Alle due di oggi dovrete avere abbandonato Livorno, in caso contrario vi impiccheremo in piazza. Ci siamo intesi?”. Il marchese fiorentino Dino Perrone Compagni – capo dei fascisti in Toscana, picchiatore protagonista di numerosi assalti squadristi, massone, guerrafondaio – inviò un telegramma al segretario nazionale del Pnf, Michele Bianchi: “Fra le mie battaglie questa più faticosa”.

Barontini

“Operate da furbi e non compromettete il partito” disse il compagno Barontini ai militanti per “aggirare la linea” della dirigenza nazionale e mantenere l’alleanza con le altre forze antifasciste. Ilio Barontini, una specie di eroe romantico, combattente ovunque credeva ci fosse bisogno, un po’ Garibaldi e un po’ il Che. Nel libro di Capitano c’è un lungo capitolo dedicato a lui, che ha incarnato il comunismo “alla livornese”: anarchico, socialista, poi comunista, esule in Francia e poi in Russia, imparò la guerriglia in Cina e prese le armi nella guerra di Spagna – contro i franchisti -, di Etiopia – contro i fascisti -, di Francia – contro i nazisti -, e ovviamente nella Resistenza in Italia, dove fu il comandante partigiano in Emilia Romagna e che liberò Bologna. Il suo “unico scopo di vivere” – dirà – “è sempre stato la ricerca del buono e del giusto”. A Livorno non si dimenticano mai di aggiungere il suo nome di battaglia, Dario.

Fu lui in Francia a organizzare i partigiani comunisti dopo la presa del potere del maresciallo Pétain: gli antinazisti francesi usavano le bombe “Giobbe”, inventate da lui e chiamate così perché era il suo nome di battaglia. E’ in sostanza uno dei capi della Resistenza francese. A Marsiglia, racconta il suo allievo e compagno fidato Giovanni Pesce, fa saltare in aria l’hotel Terminus mentre c’è un banchetto di ufficiali nazisti. A Bologna usa lo stesso meccanismo per far esplodere l’hotel Baglioni, dove si è installata la Kommandantur, il comando militare tedesco. Il dirigente comunista romagnolo Arrigo Boldrini lo definisce “il cavaliere della libertà dei popoli”. Negli ultimi mesi di battaglia contro l’occupazione delle truppe di Hitler arruolava uomini con qualsiasi storia, fregandosene del loro passato di militari mandati in guerra per Franco da Mussolini o in Etiopia a conquistare il Corno d’Africa per quella specie di impero. Ora era tutto cambiato. “È questa ritrovata unità fra tutti noi il fatto più importante che ci assicurerà la vittoria”.

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Mazzini era repubblicano e perciò passò la vita in esilio: una coerenza che merita celebrazioni

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Il 10 marzo 1872 Giuseppe Mazzini muore a Pisa, nella casa della famiglia Nathan-Rosselli che lo ospitava. E così, quest’anno, corrono centocinquant’anni dalla sua morte. Ogni anno, per la ricorrenza del 10 marzo, associazioni mazziniane e talora anche istituzioni dello Stato ricordano questa figura. A maggior ragione anche quest’anno sarà così.

Mazzini lo merita, innanzitutto per la sua ferrea coerenza. Nel 1831, quando è in esilio a Marsiglia e ha 26 anni, fonda la Giovine Italia, un’organizzazione politica che ha l’obiettivo di costruire un’Italia repubblicana e democratica. Nel 1849, a Roma, guida il triumvirato della Repubblica Romana, una delle poche esperienze genuinamente democratiche del Risorgimento. Passa quasi tutta la sua vita in esilio, per cercare di realizzare la sua idea. E quando muore non ha ancora smesso di credere nell’ideale repubblicano. È anche, si dice spesso, uno dei padri della patria, poiché sin da giovanissimo crede nell’esistenza della nazione italiana. E così, ascoltando oggi qualche opinion maker che parla del Risorgimento, si può avere la sensazione che quello sia stato un movimento in cui Mazzini, Garibaldi, Cavour e Vittorio Emanuele II abbiano marciato compatti, uno al fianco dell’altro, per dare uno Stato alla nazione. La realtà delle cose, però, non è questa.

Mazzini è repubblicano e democratico. E non apprezza affatto l’esito dell’unificazione, che porta alla costruzione di uno Stato monarchico ed elitario. Per questo, dal suo esilio, continua a elaborare piani per una possibile insurrezione repubblicana. Ancora nell’estate del 1870, quando ha 65 anni, cerca di sfruttare la situazione di incertezza internazionale che si è aperta con lo scoppio della guerra franco-prussiana e il 14 agosto si reca a Palermo, dove viene arrestato dalla polizia ancora prima di sbarcare dalla nave, poiché considerato – a ragione – un pericolo per la stabilità del Regno d’Italia. Da Palermo viene portato nel carcere di Gaeta. Ci resta due mesi, e ci sarebbe rimasto probabilmente molto più a lungo se il 9 ottobre un’amnistia generale non gli avesse permesso di lasciare il carcere senza processo; egli, tuttavia, coerente fino in fondo, rifiuta di accettare la clemenza regia e se ne va a Londra, in esilio volontario.

All’inizio del 1872 torna di nuovo in Italia, a Pisa; viaggia sotto falso nome: si fa chiamare “dottor George Brown”, proprio perché è ancora ricercato dalla polizia del Regno d’Italia. Quando muore, e si diffonde la notizia, l’opinione pubblica si divide: da un lato, molte centinaia di migliaia di persone rendono omaggio alla sua salma in varie città italiane, quando passa in treno per andare a Genova, dove verrà inumata nel cimitero di Staglieno; dall’altro, il Parlamento approva un semplice voto di cordoglio, mentre il presidente della Camera vieta qualunque discorso di commemorazione e il presidente del Consiglio, Lanza, non pronuncia neanche una parola di ricordo.

E dunque, quand’è che Mazzini da pericoloso terrorista diventa uno dei padri della patria? Qualche decennio più tardi. Sono gli uomini della Sinistra liberale a compiere l’operazione, Crispi, in modo particolare. Sono gli uomini giusti: in gioventù sono stati mazziniani o garibaldini; poi hanno deciso di continuare l’azione politica nel Parlamento del Regno d’Italia; ma per farlo hanno dovuto giurare fedeltà al re e allo Statuto Albertino, e quindi hanno rinunciato alle loro idealità repubblicane. Nondimeno, il loro aver attraversato tutti i campi della politica risorgimentale li fa essere le persone adatte a costruire la nuova narrazione, quella di Mazzini, con Garibaldi, Cavour e Vittorio Emanuele armonicamente sottobraccio gli uni con gli altri. All’epoca non è stata altro che una mossa propagandistica, di autolegittimazione: col tempo è diventata una tenace “vulgata”, che ancora adesso abita – del tutto infondatamente – il nostro immaginario risorgimentale.

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L’Unità d’Italia si è costruita sull’ideologia nazionalista: celebriamola consapevolmente

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Il 17 marzo 1861 il parlamento del neonato Regno d’Italia approva la legge che attribuisce a Vittorio Emanuele II e ai suoi successori il titolo di Re d’Italia. Con una legge del 23 novembre 2012, il parlamento della Repubblica italiana “riconosce il giorno 17 marzo, data della proclamazione in Torino, nell’anno 1861, dell’Unità d’Italia, quale ‘Giornata dell’Unità nazionale, della Costituzione, dell’inno e della bandiera’”.

Non so se la data sia stata scelta così bene. Cioè, a voler essere pignoli, è un po’ strano che una Repubblica scelga di celebrare la nascita del proprio Stato, ricordando l’ascesa al trono di un re. Comunque, a parte questo, è certo che il processo di unificazione sia stato un momento fondamentale nella storia della Penisola, se non altro per un fatto: prima dell’unificazione gran parte della Penisola era amministrata da Stati privi di Costituzione e di istituti rappresentativi; dopo l’unificazione, l’intera Penisola (con l’eccezione delle terre ancora non aggregate al nuovo Stato) ha una Costituzione (lo Statuto Albertino) e un Parlamento. È vero che alla elezione della Camera può partecipare solo una percentuale minima della popolazione (maschi adulti alfabetizzati e ricchissimi): ma è qualcosa. È un passo che – pur con il drammatico contraccolpo novecentesco del fascismo – porterà all’ampliamento progressivo dei diritti di cittadinanza.

Questo, peraltro, è un punto delicato. Lo Stato unitario italiano è uno “Stato-nazione”. Cioè, come molti altri Stati ottocenteschi, è stato costruito in ragione del successo dell’ideologia nazionalista. E questo è un aspetto che si vede bene, quando si osservino le norme che regolano l’attribuzione della nazionalità, da cui derivano i diritti di cittadinanza, contenute nel Codice Civile del 1865. La nazionalità è attribuita seguendo quattro principi fondamentali:

1. lo ius sanguinis: è cittadino chi è figlio di padre cittadino, indipendentemente dal luogo di nascita (la declinazione è maschilista, come lo è tutto il diritto del Regno d’Italia – le donne non possono votare);

2. lo ius soli: è automaticamente cittadino il figlio di straniero che sia nato in Italia e risieda nel regno da almeno dieci anni ininterrotti;

3. lo ius connubii: una straniera che sposi un cittadino diventa cittadina, e conserva la cittadinanza anche da vedova, mentre “la donna cittadina che si marita a uno straniero diviene straniera”;

4. la naturalizzazione, che attribuisce i diritti civili e politici a una persona straniera ed è concessa per legge su richiesta dell’interessato (peraltro si registrano solo 13 casi di naturalizzazione dall’Unità alla fine del secolo).

Qual è la ratio complessiva di questo sistema? Lo spiega chiaramente Giuseppe Pisanelli, relatore del progetto di Codice Civile in parlamento: è ovvio – dice questo parlamentare – che lo ius sanguinis sia il principio fondamentale per l’attribuzione della nazionalità, “perché la razza è il precipuo elemento della nazionalità”. E Pisanelli non è il solo a palesare queste convinzioni: l’11 marzo 1861, quando Cavour presenta alla Camera il disegno di legge sul conferimento del titolo di re d’Italia a Vittorio Emanuele II e ai suoi discendenti, dice: l’Italia è una “nobile nazione che si fa una di reggimento e d’istituti, come una già la rendono la stirpe, la lingua, la religione, le memorie degli strazi sopportati e le speranze dell’intiero riscatto”. La razza; la stirpe; Manzoni qualche tempo prima aveva detto il sangue, oltre alle armi, alla lingua, all’altare, alle memorie e al cor. E siamo nel 1848, nel 1861, nel 1865, mica nel 1938.

E quindi: celebriamo senz’altro l’Unità, ma con la consapevolezza della complessità dei processi storici, e avendo ben chiaro in mente che cosa sia stato il nazionalismo ottocentesco.

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