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Channel: Unità d’Italia – Il Fatto Quotidiano
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Meloni bocciata in videogame

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Bisogna fare attenzione quando si esplorano territori poco conosciuti. I videogame, per esempio, inutili mangiacervello per alcuni, pura arte per altri, hanno sterminate stuole di fan e ormai numerosi titoli risultano più redditizi delle pellicole di Hollywood. Se si entra in questo territorio, bisogna andarci coi piedi di piombo: gli utenti sono numerosi, agguerriti e molto, molto, esigenti.

Mal gliene incolse al ministro Giorgia Meloni, che per il 150esimo dell’unità d’Italia, aveva avuto una bella idea: realizzare un videogioco – distribuito gratuitamente– con le gesta di Mazzini, Garibaldi, Pisacane e i giovanissimi che diedero la vita per la patria. Gioventù Ribelle è il titolo dello “sparatutto”, che “celebra l’eroismo” e “racconta la storia ai giovani di oggi con il loro linguaggio”. “Il videogioco può trasformarsi in un medium efficace per la trasmissione di valori, sapere, identità” aveva aggiunto il ministro alla presentazione.

Ma agli utenti, il gioco non è piaciuto per niente: The Worst Game Ever, il peggior videogioco di sempre, si intitola una partecipatissima discussione dedicata a Gioventù Ribelle sul forum internazionale Neogaf.com. “Un lavoro frettoloso, portato a termine senza la dovuta attenzione” la stroncatura di GameNation.it. “Il titolo ha dei bug evidenti – aggiunge Tomshw.it –, gli ambienti sono realizzati con una grafica di diverse generazioni fa”. GameNation conclude: “Purtroppo le critiche arrivano anche dall’estero, e viene fornita una visione distorta dell’industria videoludica nostrana”.

Per rispondere, è intervenuto nei forum online Raoul Carbone, presidente di Confindustria Assoknowledge che ha realizzato (gratuitamente) il gioco: “Il progetto – spiega –, adottato dal Ministero della Gioventù, è soltanto una dimostrazione non commerciale e realizzata a fini culturali, dagli studenti dell’Istituto Europeo di Design seguiti e aiutati dal loro coordinatore Raoul Carbone”. Cotto, sparato, e fatto in casa, insomma.

Il Fatto Quotidiano, 23 marzo 2011

Aggiornamento 24/3: a seguito della polemiche, il ministero ha deciso – per ora – di interrompere la distribuzione del videogame.

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Torino, sotto inchiesta gli appalti per le celebrazioni dell’Unità d’Italia

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Giorgio Napolitano a Torino per le celebrazioni dei 150 anni dell'Unità d'Italia

Il business dei festeggiamenti per i 150 anni dell’Unità d’Italia finisce sotto la lente degli investigatori. Altri dubbi cadono sul mondo dell’organizzazione di eventi a Torino. Venerdì due persone sono state raggiunte da un avviso di garanzia mentre la Guardia di Finanza effettuava perquisizioni. Questi provvedimenti rientrano nell’inchiesta sulla presunta turbativa d’asta nell’appalto per l’allestimento delle mostre “Stazione Futuro” alle ex Officine Grandi Riparazioni. Gli indagati dal sostituto procuratore Cesare Parodi sono l’ingegner Silvano Cova, che presiedeva la commissione che assegnava gli appalti, e la dirigente comunale Magda Iguera, che ne faceva parte. Per tutta la mattina le Fiamme Gialle hanno cercato documenti nei due uffici del Comitato e in Comune, ma già da tempo seguivano la vicenda.

Il tutto nasce nell’autunno scorso da un procedimento del Tar del Piemonte sull’assegnazione dei progetti e dell’allestimento delle mostre nelle ex Ogr. A fine luglio 2010 il vicepresidente del “Comitato Italia 150” Alberto Vannelli aveva affidato l’incarico al miglior offerente, un raggruppamento temporaneo di imprese, composta da Gozzo Impianti, Codelfa, Bodino e guidate dalla Ed.Art srl.

Le ditte escluse, tra cui la Set Up e il Consorzio cooperative Costruzioni, fanno ricorso. I giudici amministrativi riscontrano che la commissione aggiudicatrice del Comitato non aveva notato il mancato rispetto di alcune clausole, ma anche che la Ed.Art non poteva partecipare alla gara. Condannano quindi il Comitato a risarcire agli esclusi il 3% della base d’asta della gara (da 9,5 milioni di euro, cioè circa 250mila euro), ma non ordinano l’annullamento del contratto: il 17 marzo arriva il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano al taglio del nastro e occorre terminare le opere in fretta. Per questa ragione, e per non pagare il risarcimento, il vice-presidente di “Italia 150” Vannelli prova a imporre un accordo alle imprese facendo entrare la Set Up nei lavori.

Intanto, con quest’accordo, i costi crescono. In totale, due milioni in più del massimo previsto. Dalla base d’asta di 9,5 milioni si sale a 11.358.000 euro, suddivisi così: 7.336.000 euro di lavori alla Ed.Art e 4.022.000 euro al raggruppamento Ccc-Set Up, che in cambio rinuncia al risarcimento. Per queste ragioni l’ipotesi della procura è di turbativa d’asta.

Nel frattempo i lavori terminano e Torino può dare il via ai festeggiamenti per i 150 anni d’Italia in tutta calma. Almeno fino a oggi, quando negli ambienti si diffonde la notizia degli avvisi e delle perquisizioni. Ciononostante, dal Palazzo di Città, restano diplomatici: “L’Amministrazione comunale di Torino – dichiara nel pomeriggio di oggi il direttore generale del Comune, Cesare Vaciago – è fiduciosa dell’attività della magistratura ed è convinta della piena correttezza dell’operato dei dirigenti comunali che hanno fatto parte della commissione per l’aggiudicazione dei lavori di allestimento”. Vanelli conferma “la piena volontà di tutti a collaborare con la magistratura, le persone coinvolte saranno in grado di fornire tutti i chiarimenti che verranno richiesti”.

Tuttavia quest’indagine aggrava il quadro di un mondo, quello degli eventi e della gestione delle infrastrutture, su cui nelle scorse settimane è piombata un’altra inchiesta del pm Parodi, partita sempre da ricorsi al Tar riguardanti l’irregolarità delle procedure d’appalto. Se quest’ultima tocca gli eventi per i 150 anni dell’Unità, la precedente riguarda la gestione post-olimpica degli impianti per i giochi invernali del 2006. In quel caso a vincere l’appalto giudicato irregolare era stata la Set Up.

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“Italica 150”, viaggio al cuore degli italiani

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Ci sono molti modi per festeggiare il 150esimo dell’Unità d’Italia. Lo scrittore Enrico Brizzi ha scelto il più difficile: una lunga marcia a piedi dalla Vetta d’Italia a Capo Passero per scoprire cosa ne è del nostro paese a 150 anni dalla nascita. Non è il primo “viaggio psicoatletico” di Brizzi che aveva già percorso a piedi altri itinerari della mente come la via Francigena o la linea Gotica. Stavolta però il viaggio non finirà solo sulla pagina scritta (“Gli Psicoatleti”, in uscita a maggio per Dalai Editore) perché ad accompagnare Brizzi c’erano anche le telecamere. Ne è venuto fuori un film che mostra un’Italia insolita, fatta di paesaggi e persone che incontri solo fuori dalle strade principali.

Dopo avere raccontato l’Italia televisiva mainstream con la pagina scritta, dopo aver descritto ne “La vita quotidiana in Italia ai tempi del Silvio” il paese che vive all’ombra del piccolo schermo, Brizzi si è disintossicato immergendosi nel paese reale e periferico con telecamera al seguito. Per mostrare i percorsi alternativi della mente, lo scrittore con la sua squadra di “psicoatleti”, e con la coautrice del documentario Serena Tommasini Degna, che ha curato anche la regia, si è inerpicato sulle Alpi e gli Appennini tra volpi e cani randagi.

Il film si chiama “Italica 150” ed è un’esperienza di viaggio e di vita tra paesaggi e persone che puoi incontrare solo quando abbandoni le strade principali, con le gambe e con la testa. Il film sarà presentato il 7 maggio al Trento Film Festival e il 12 maggio a Milano allo Spazio Oberdan. Questa che vi mostriamo è un’anteprima del racconto in presa diretta di questo viaggio di 2191 chilometri. Un’impresa che – come si legge sulla presentazione del sito internet, – è anche “Un tentativo di regalare parte di questa esperienza a chi non ha mai voluto dare fiducia alle proprie gambe e ai propri occhi”.

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Unione europea, i motivi per scegliere i popoli del Sud (alla faccia dell’olandese)

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Il 25 marzo del 1957 sei paesi si incontrarono a Roma per firmare i trattati riguardanti il mercato comune europeo. Dopo 60 anni si ritroveranno a Roma 28 paesi, la cui maggioranza da anni vive con difficoltà la propria permanenza in questa organizzazione internazionale. Addirittura la Gran Bretagna, mediante un referendum, ha deciso di uscirne lo scorso giugno.

Così come nel caso delle celebrazioni dell’Unità d’Italia del 2011, il rischio è che la retorica si imponga. In Italia nel 1961 si ebbe il coraggio di sottolineare tutto quello che non funzionava e, nel 2011 invece, sia perché i problemi erano aumentati sia perché la politica non aveva alcuna risposta, re Giorgio Napolitano organizzò qualche convegno super-anestetizzato pieno di miele.

Il 2017 europeo non potrà essere così. I problemi sono troppi ed i popoli sono infuriati, anche se non hanno una guida. Unione europea sì o Unione europea no è un falso problema. L’alternativa non è tra euro e lira. L’alternativa non è tra Unione europea e nazione. La soluzione alla crisi europea è decidere se stare con il popolo o con l’élite che governa e che va rovesciata. Decidere se stare con chi lavora e produce la ricchezza o con le banche.

Il ministro degli esteri olandese Jeroen Dijsselbloem non trova affidabili i paesi del Sud Europa (quindi anche l’Italia) perché avremmo speso i soldi dell’Unione “in alcol e donne”.
Al presidente dell’Eurogruppo ha risposto, attualizzando una moderna questione meridionale (dell’Europa) Senso Comune. Con una infografica ormai famosa su “I motivi per scegliere i popoli del Sud Europa” chiariamo di quali colpe vivono i popoli del Sud Europa:

1. Lavorano più ore di quelli del nord, ma rimangono fannulloni;
2. I loro giovani sono ottimi camerieri;
3. Li puoi semi-colonizzare in nome dell’Europa;
4. Comprano elettrodomestici del nord a gogo;
5. Salvano le banche tedesche da bancarotta certa;
6. I loro politici starnazzano un po’, ma alla fine obbediscono sempre

Agli occhi di un sardo che conosce il carattere coloniale delle politiche italiane e savoiarde, non suona strano. Ma ormai la battaglia è a livello europeo. Il tema riguarda se la sovranità deve tornare al popolo e come ci si organizza a livello europeo e mondiale. Il Movimento 5 Stelle non ci aiuta: non ha le idee chiare, cambia gruppi parlamentari europei molto diversi tra loro, ma che in ogni caso stanno con le banche e con le élite. Il referendum sull’euro è una scorciatoia per non presentare un programma sull’Europa.

A noi, popoli del Sud Europa e popoli europei, serve un piano A, ma anche un piano B e un piano C. Il piano A è la riscrittura dei trattati europei, partendo da principi economici e politici chiari. Personalmente ritengo imprescindibile l’introduzione di “uno standard sociale internazionale sui movimenti di capitali”.

Il piano B è una alleanza dei paesi del Mediterraneo, i quali si rendono conto che l’Europa che si sta costruendo (Europa a due velocità, subalternità alla Nato) è completamente sorda alle richieste fatte, e quegli stessi paesi organizzano un proprio livello di relazioni economiche, sociali e politiche internazionali.

Il piano C è immaginare come reagire, da soli, al ricatto di Francoforte e di Bruxelles.

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‘Carlo Felice e i tiranni sabaudi’, la Sardegna degli uomini con meno diritti degli altri

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È già alla terza edizione il libro di Francesco Casula Carlo Felice e i tiranni sabaudi: una casa editrice coraggiosa (Grafica del Parteolla edizioni) e uno studioso che ha dedicato la sua esistenza alla divulgazione e all’approfondimento di temi che i media e le istituzioni, guarda un po’, tengono nascosti. L’aspetto che rende il libro agile, di facile lettura e in alcune parti avvincente è che Casula fa parlare gli storici e i protagonisti di allora.

Il libro di Casula risponde a una domanda semplice: dopo che i Savoia ricevettero, controvoglia, la Sardegna nel 1720, e divennero re, come si comportarono verso quella importante parte del loro regno? La risposta al quesito è semplice, lineare, durissima: la Sardegna venne trattata come un territorio altro rispetto al Piemonte, abitato da uomini che avevano meno diritti rispetto agli altri, culturalmente e socialmente inferiori, i quali dovevano essere trattati in modo tale da mantenere questa inferiorità. Questo pensavano i tiranni sabaudi, e le loro modalità di governo, o meglio di spoliazione, sono la diretta conseguenza della visione ideologica appena tratteggiata.

Girolamo Sotgiu, probabilmente il più grande storico del periodo sabaudo in Sardegna, pur essendo un oppositore della “diversità” dei sardi rispetto agli italiani, non poté non constatare il carattere coloniale dei rapporti tra Piemonte e Sardegna. Di quei rapporti non sono colpevoli coloro che allora abitavano il Piemonte (per carità) bensì i governanti, cioè i Savoia e, successivamente, gran parte della classe dirigente post-1861.

Nel 2011, durante le celebrazioni del 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia, si è persa l’occasione di riflettere criticamente sul Paese e sul processo di “unificazione”. Però si può sempre (ri)cominciare, anche in assenza di una ricorrenza. Se un turista, un italiano o uno straniero, viene in Sardegna, scoprirà che la strada più importante, la SS131, è la “Carlo Felice”. Carlo Felice, detto anche “Carlo feroce” è stato uno dei peggiori, più sanguinari e pigri vice-re di Sardegna.

Un amico studioso ama ripetere che è come se gli israeliani, nel 2200 dedicassero la loro strada più importante a un nazista, magari a Hitler in persona. Certo, questo sarebbe potuto succedere se i nazisti avessero vinto. Dato però che non è giusto che la storia la facciano i vincitori, le persone dotate di senno o almeno di amor proprio che abitano in Sardegna, perché non mettono mai in discussione la memoria che si reifica nei nomi delle strade e delle vie di Sardegna?

A Cagliari, nella piazza più frequentata, svetta la statua di Carlo Felice. Più di sei anni fa proposi, per molti provocatoriamente, di sostituirlo con Giovanni Maria Angioy, il quale “fu il capo […] del movimento anti-feudale sardo. Angioy fece proprie le rivendicazioni delle popolazioni della campagna vessate dai feudatari, e propugnò l’eliminazione delle arcaiche strutture di potere”. Da tempo, un movimento di opinione, che ha presentato anche una petizione, chiede che la statua venga spostata.

In questa fase storica, di disfacimento di un progetto politico (l’Italia), ragionare sulla sua storia secolare e i suoi governanti, ragionare sul suo carattere plurinazionale (l’Italia è insieme alla Francia uno dei paesi europei a non aver ratificato la Carta Europea delle Lingua Minoritarie), fa sicuramente bene ai popoli in cerca di una libertà che Roma non ha fornito, ma anche a Roma stessa.

Il libro di Francesco Casula, che rifiuta ogni razzismo anti-italiano, è un valido contributo per riscrivere veramente la storia, andando contro i tanti tradimenti dei presunti chierici.

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Moneta unica e Mezzogiorno, la lira piemontese è la causa del divario Nord-Sud?

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di Andrea Filocamo*

Dopo la proclamazione dell’Unità d’Italia, il nuovo Regno dovette dotarsi di una moneta unica, dato che nei singoli Stati preunitari circolavano monete differenti. Come in altri ambiti, si scelse il modello sabaudo, adottando nel 1862 la lira piemontese. Un aspetto trascurato dell’unificazione monetaria italiana riguarda il suo possibile effetto sullo sviluppo economico delle diverse aree del Paese. L’unificazione monetaria influenzò il divario tra Nord-Sud? La risposta a questa domanda non soddisfa solo una curiosità accademica. Per alcuni aspetti, l’esperienza italiana può risultare utile per comprendere l’impatto che l’adozione dell’euro ha, oggi, sui divari regionali in Europa.

La teoria delle aree valutarie ottimali, proposta da Robert Mundell nel 1961, rappresenta uno schema utile per verificare se ai Paesi conviene adottare una moneta unica. Secondo questa teoria, un’unione monetaria funziona se presenta alcune condizioni. Tra queste, in particolare, l’elevata mobilità dei fattori di produzione, vale a dire la facilità per i lavoratori di una regione colpita da crisi di trovare occupazione nelle altre regioni.

Ora, se guardiamo al Regno d’Italia del 1861, tale condizione non sembra soddisfatta. Su scala nazionale, la mobilità del lavoro era bassa, nonostante il progressivo incremento delle vie di comunicazione. Per un meridionale era ovviamente più semplice spostarsi all’interno dei confini dell’ex Regno delle due Sicilie che nel resto della Penisola. Proprio l’emigrazione transoceanica, che iniziò verso la fine dell’Ottocento, mostrava come un veneto o un calabrese fossero maggiormente attratti dalle Americhe piuttosto che dalle regioni del Nord-Ovest che si andavano industrializzando. La ragione fondamentale è che le condizioni economiche delle regioni italiane erano, all’epoca, ancora simili. Di conseguenza, si emigrava all’estero, mentre l’emigrazione interna al paese era ancora modesta.

In assenza di mobilità del fattore lavoro, è molto difficile in un’unione monetaria assorbire i cosiddetti “shock economici asimmetrici“, quelle crisi, cioè, che colpiscono solo alcune regioni lasciando indenni le altre. In presenza di shock asimmetrici, la politica monetaria unica risulta evidentemente inefficace, dal momento che una politica espansiva per sostenere le regioni in recessione indurrebbe inflazione nelle aree non colpite dallo shock, mentre se si volesse privilegiare la stabilità monetaria, si dovrebbero accettare la recessione e la disoccupazione nelle aree più deboli.

C’è chi ha sostenuto che proprio le unioni monetarie ridurrebbero la probabilità che si verifichino shock asimmetrici. L’unione monetaria accrescerebbe, infatti, gli scambi commerciali tra gli Stati o le Regioni aderenti, sicché le loro economie ne risulterebbero coordinate. A questo punto, una politica monetaria unica sarebbe efficace. Un’argomentazione che appare oggi discutibile, alla luce dell’andamento degli scambi commerciali nell’attuale area euro.

Ma c’è un altro aspetto da considerare. In un’unione monetaria, i fattori produttivi (soprattutto il capitale) possono facilmente spostarsi nelle aree in espansione, con mercato più ampio o con elevata specializzazione produttiva. Come risultato, l’integrazione economica e monetaria tende a far crescere, insieme alla specializzazione, anche le differenze regionali.

A ben vedere, si tratta di un meccanismo che troviamo in azione in Italia nell’Ottocento. 

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*Ricercatore t.d. di Storia economica dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria

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Bunga bunga, escort, doppia morale: così Verdi il “tricolore” da 150 anni spiega l’Italia agli italiani (che non sempre hanno capito)

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Le corna che fanno male più al nome che al cuore. Le cene eleganti e i cortigiani vili, adoranti intorno al governante, che peraltro se ne frega di governare. Le escort mantenute e poi allontanate dai parenti del consumatore finale. Il cazzeggio fine a se stesso del vitellone fino a un’età ormai stramatura. Le donne, poi, trattate come soprammobili: da usare e gettare, da possedere non solo nel senso carnale ma anche come proprietà privata, anzi di più, da dileggiare, da trattare come corpi senza testa, privi di coscienza di sé. Su quel popolo di ipocriti, perbenisti, rammolliti, doppiomoralistimisogini, anzi veri maschilisti, che poi siamo noi, c’era già tutto spiegato: sarebbe bastato – o meglio basterebbe ancora – osservarlo, ascoltarlo, capirlo un po’ meglio. Quel ritrattone, quella foto di gruppo di noi tutti in posa, era già dentro Giuseppe Verdi, il più grande, il più famoso, il più rappresentato, il più cantato, il più patriottico secondo una narrazione vera, ma un po’ indolente. Eppure, forse, mai compreso fino in fondo.

Allora, accanto alle analisi sociologiche e ai libri dei corsi e dei ricorsi storici, proprio la produzione del più grande compositore lirico – il più celebre made in Italy nel mondo insieme al cibo e ai monumenti – diventa il prisma, il google translate, l’esame del sangue per capire perché siamo come siamo. L’unico che poteva riuscire a spiegarlo così bene – con Meno grigi, più Verdi (Garzanti, 156 pagine, 16 euro) – è Alberto Mattioli, giornalista della Stampa, manica a vento del racconto dell’opera in Italia che come con il precedente Anche stasera scrive un libro che si beve. Per farlo usa due arnesi del mestiere. Il primo: destinare la sua conoscenza a diversi livelli di comprensione (chi di lirica sa così così, chi ne sa

“Meno grigi, più Verdi” è lo slogan scritto sul graffito del writer Frode che si trova all’angolo tra via Manzoni e via Verdi, a due passi dal teatro alla Scala

abbastanza, chi ne sa tutto). Il secondo: la forma d’espressione, cioè l’ironia e – viva – il linguaggio del Duemila e non del Cinquanta (dell’Ottocento), primo passo per rendere più vicino alla testa e al cuore di oggi quello che è stato scritto quasi duecento anni fa ma vale per tutti i tempi, che d’altra parte è il dna dell’arte. Così Meno grigi, più Verdi è la storia dell’operista più rappresentato al mondo abbracciata alla storia d’Italia che si stava facendo e che ancora si fa.

Verdi l’antropologo: sincero, lucido, disilluso
Verdi come bioarcheologo del suo popolo, “antropologo di una popolazione dai curiosi usi e costumi”, scrive Mattioli, dallo sguardo “così sincero, quindi anche così disilluso” da affiancarlo a “Machiavelli, Leopardi, Gramsci, Fellini”. Il punto centrale del ragionamento che mette in connessione 10 opere tra le più celebri di Verdi e il mondo e il tempo di oggi è che “non bisogna farsi ingannare dai libretti, che collocano le loro improbabili vicende in un passato favoloso o in terre esotiche”, con quegli strambi abiti di scena. “Chi indossa quei costumi favolosi sono gli italiani di sempre, siamo noi. Le relazioni familiari, il ruolo della donna, le prevaricazioni del potere, gli amori socialmente impossibili”. Come Aida, che per Mattioli alla fine racconta di un ragazzo di buona famiglia, Radamès, che “commette l’imperdonabile errore di innamorarsi della colf immigrata (Aida, appunto, ndr) invece che di un mezzosoprano socialmente compatibile”. E infatti finisce malino perché le regole sociali che Verdi contesta nelle sue opere ne escono vincenti. Come accade spesso nella realtà.

Basta con la figurina: Verdi ci serve per guardarci allo specchio
E’ una rimessa a fuoco dell’immagine di Verdi. Non più la figurina (Verdi col cilindro, Verdi sulle mille lire) da appiccicare come il marchio di qualità – ed ex post – come cantore dell’epos risorgimentale, ma “uno dei pochi intellettuali che hanno raccontato gli italiani per come sono e non per come si credono di essere”. Verdi “è diventato una specie di garante operistico di questa Italia fatta male, una foglia di fico che copre le immancabili vergogne nazionali”. Una specie di consolazione: sì, facciamo un po’ schifo, ma almeno abbiamo Verdi. Lui, che veniva e si rifugiava volentieri nella campagna delle Roncole di Busseto, è sempre rimasto un osservatore lucido come una lama di rasoio mentre guardava il mondo “di fuori”. E per questo, “la venerazione verso il monumento – incalza Mattioli – rende difficile conoscerlo meglio”. Di conoscere, capire Verdi c’è bisogno invece: “Di lui, della sua severità e del suo realismo, del suo pessimismo che non esclude il coraggio, che denuncia il Male per mostrarci il Bene e fa del Bello non un fine ma un mezzo”.

Olgettine e #metoo: Rigoletto
Mattioli nel libro (e cioè Verdi) fa dialogare con la contemporaneità Stiffelio, Traviata, Aida, il Ballo in Maschera. Per tutti può fare da icona Rigoletto, la cui prima scena, annota l’autore, è “un clamoroso bunga bunga sullo sfondo della cena elegante di qualche potente”, ma che rappresenta un’idea, anzi due idee della donna che non possono che suonare familiari, al tempo del #metoo. Da una parte c’è il Duca di Mantova, tenore per antonomasia, che in testa ha solo la ripetitiva e meccanica azione dell’amplesso: considera le donne solo come vagine. “Seduco dunque solo e al di là di questo non c’è nulla” sintetizza Mattioli. E’ lui che intona Questa o quella per me pari sono che rimanda alla scelta delle Olgettine. E’ lui che canta l’aria ultrapop della Donna è mobile, un inno alla misoginia. Non c’entra niente il Don Giovanni di Mozart, fa notare Mattioli, il conquistatore mozartiano ama davvero le donne – corpo e anima – e tra l’altro va sempre in bianco. Invece “il Duca non ama, mai”.

Poi c’è l’altro punto di vista, quello di Rigoletto, il buffone di corte del Duca, la cui figlia – gira e rigira – finisce rapita dallo scopatore indefesso. Rigoletto, che fino a un secondo prima sghignazzava dell’angoscia di mariti, fratelli e padri le cui parenti venivano deflorate dallo stecco ducale, ora va giù di testa. Perché Gilda, la figlia, non è donna-oggetto solo per il Duca – spiega Mattioli – ma anche per il padre, Rigoletto: “L’ideale femminile per lui è quello della reclusa in casa, vergine a oltranza, occupata solo a cucinare, cucire, biascicare rosari”. Insomma: “Per i maschi di quest’opera, per il maschio della sana tradizione nazionale, la donna è santa o puttana”. Vale anche per Violetta, la Traviata. E infatti è Gilda l’eroina, sottolinea Mattioli. Anche quando Rigoletto le fa vedere che il Duca si sta facendo già un’altra, lei insiste: no, papi, io resto innamorata. Si libera, almeno dalla gabbia della casa di bambola, e (aridanghete) ci lascerà le penne.

Verdi l’innovatore (Netflix a teatro)
Ma Meno grigi, più Verdi è anche la storia di Verdi come innovatore della drammaturgia. Uno sperimentatore, che costruisce il Trovatore – per dirne una -, con tutti gli atti che finiscono lasciando gli spettatori “appesi”: “il seguito alla prossima puntata” scrive Mattioli, finché all’ultima scena “tutti i pezzi della storia andranno al loro posto”. Tradotto – absit iniuria verbis – è come una serie su Netflix. “Serviva al pubblico coevo un tipo di narrazione di cui era ghiotto perché vi era avvezzo, tutti i giorni aprendo il giornale”. Ed è questo spirito innovatore – che alla faccia dei rottamatori e dei nuovisti Verdi mantiene fino al Falstaff scritto a quasi ottant’anni – che dovrebbe fare da insegnamento aureo. Quello che bisognerebbe fare, dice Mattioli ribadendo un classico delle sue invettive, “è togliere Verdi dalla teca e metterlo in rapporto con il nostro mondo”. Moderno, aggiunge, “non significa necessariamente mettere Violetta in jeans o fare di Otello un vucumprà: significa semplicemente chiedersi quanto di presente c’è in quel passato, e farlo vedere”. Una missione facile come quella attuale di Mattarella in un ambiente ancora rigido come quello della lirica in Italia, ma “tradire Verdi – afferma Mattioli – è soltanto non farlo parlare al pubblico, mettere uno schermo fra la potenza devastante delle sue storie e la gente“.

Verdi il cantore dell’Unità (che amava l’Italia senza stimarla)
E’, infine, la storia di Verdi politico, tifoso – da liberale repubblicano – delle avventure del Risorgimento tanto da avere toni quasi populisti: “Quando il popolo vuole, non avvi potere assoluto che le possa resistere”. E poi diventa quasi reazionario perché spaventato dalle rivolte di fine Ottocento non più solo per le idee ma soprattutto per il pane. In mezzo, la metamorfosi: capirà che senza i Savoia l’unità d’Italia non sarebbe mai possibile, si ritroverà a piangere come un bambino ai funerali di Cavour, approverà le cannonate di Bava Beccaris. Ma il punto è, dice Mattioli, che Verdi ama l’Italia ma non la stima. “Sa benissimo cosa non funziona e perché, ha ben presente la fragilità del nuovo Stato e le contraddizioni della sua società, l’influenza della Chiesa, l’autoreferenzialità della cultura, la scarsa fiducia nello Stato, il conformismo intellettuale”. Mattioli descrive per esempio La forza del destino come un affrescone quasi neorealista dei pezzi di società italiana. “Sapeva che l’Italia non era quella che si vedeva dagli scranni di Palazzo Carignano o di Palazzo Madama. Sapeva che i libri li leggevano in pochissimi allora come oggi e che per lui e i suoi amici liberali e positivisti la Chiesa era il nemico da abbattere, ma che per molti italiani rappresentava la speranza di un futuro migliore”. Usciva dalla cerchia, insomma, dall’illusione che dà facebook che tutti la pensino come te. In definitiva, “una volta di più, Verdi spiegava agli italiani l’Italia com’era, non come credeva di essere”. Una lezione di metodo utile, oltre 150 anni anni dopo, a parecchi direttori di giornale.

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Regionalismo differenziato, cos’è e quali sono i suoi rischi

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di Sergio Marotta (Università Suor Orsola Benincasa)

Dalle Regioni al federalismo differenziato

Che le Regioni fossero troppo costose per il bilancio dello Stato italiano lo aveva già detto, in Assemblea costituente, Francesco Saverio Nitti che certo di conti pubblici se ne intendeva, essendo stato uno dei massimi studiosi di scienza delle finanze noto e apprezzato in tutta Europa. Eppure lo statista di Melfi non fu ascoltato, come non lo furono Benedetto Croce e Concetto Marchesi, Pietro Nenni e Palmiro Togliatti, Luigi Preti e Fausto Gullo, tutti uniti nell’opposizione all’ordinamento regionale.

Passò la linea del siciliano Gaspare Ambrosini che introduceva una forma di Stato organizzato in Regioni in cui si teneva insieme l’unità della Repubblica e l’autonomia degli enti locali. Alla fine la formula dell’articolo 5 dei Principi fondamentali risultò la seguente: “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”.

Impiegati gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso per passare all’attuazione, con 20 anni di ritardo, degli ordinamenti regionali, si procedette, poi, a un quindicennio di riforme della pubblica amministrazione che iniziarono con la legge sull’ordinamento degli enti locali, la 142 del 1990, che prese il nome dell’allora potentissimo ministro dell’Interno, il democristiano Antonio Gava.

Venne, quindi, il turno delle varie leggi Bassanini dal nome del ministro della Funzione pubblica che le elaborò e, a più riprese, le portò all’approvazione del Parlamento. La prima fu la legge 59 del 1997 che doveva realizzare il federalismo a Costituzione invariata. Era il tempo in cui imperava il verbo della sussidiarietà come forma di avvicinamento del luogo della decisione pubblica al livello più prossimo alla collettività di riferimento. “Sussidiarietà” era la parola magica per realizzare un’azione amministrativa più efficiente, più efficace e più economica.

Alla fine degli anni Novanta si stabilirono anche i nuovi criteri di riparto dei fondi per la sanità che furono riassunti nel decreto legislativo 56 del 2000. Tale importante decreto, pur mantenendo ferma l’idea di un servizio sanitario nazionale, portò a una distribuzione differenziata – e sbilanciata a favore delle Regioni settentrionali – dei fondi per la sanità che costituivano, e costituiscono ancor oggi, la parte più cospicua dei bilanci regionali. Dopodiché la riforma del Titolo V della Costituzione, con la legge costituzionale numero 3 del 2001, approvata in Parlamento con soli quattro voti di maggioranza nell’ultima decisiva votazione e sottoposta a un referendum popolare al quale partecipò poco più del 34% degli aventi diritto, realizzò una nuova forma di regionalismo volta a trasferire alle Regioni poteri, funzioni e competenze paragonabili a quelle più proprie di Stati federali.

In effetti, il nuovo Titolo V della Costituzione, elaborato da una maggioranza di centrosinistra nel tentativo di inseguire gli elettori della Lega, introdusse nell’ordinamento italiano alcuni principi di cosiddetto federalismo fiscale e ribaltò il principio stabilito dai Costituenti secondo cui le competenze non espressamente attribuite ad altro ente dovessero rimanere in capo allo Stato nel suo esatto contrario: ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato doveva spettare alle Regioni e non più allo Stato. In particolare, mentre l’articolo 117 introdusse i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, che dovevano essere uguali per tutti i cittadini, l’articolo 119 cancellava ogni riferimento al Mezzogiorno, introduceva la formula secondo cui gli enti locali compartecipano al gettito dei tributi erariali “riferibile al loro territorio” e istituiva, nel contempo, un fondo di perequazione per i territori con minore capacità fiscale. Insomma si cercava di salvare l’unità dello Stato affermando che, in teoria, i servizi devono essere uguali per tutti, ma si riconosceva che in alcune regioni virtuose – solo perché economicamente più forti – i servizi pubblici potevano essere anche migliori rispetto a quelli previsti dai semplici livelli essenziali.

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Napoli è un mondo a sé. E le auguro di non cambiare

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Napoli da sempre vive del proprio racconto, una narrazione che risente del trauma storico dell’unità d’Italia in cui la città ha perso un’identità nazionale. Napoli è una capitale orfana del proprio regno, un lutto che non abbiamo ancora metabolizzato, come sottolineato dallo storico Marcello Ravveduto. Da allora tutta la produzione culturale partenopea, sprovvista di strutture adeguate, per farsi sentire ha dovuto spesso alzare i toni, diventare sfacciata, scostumata.

Una cultura capace di offrire contemporaneamente il meglio e il peggio di sé; trasformandosi spesso in folclore becero, inventando e interpretando una napoletanità che potesse andare bene per l’Italia unita, come racconta Raffaele La Capria ne L’armonia perduta, ma anche anticipando tendenze con linguaggi e idee nuove, come giustamente afferma Angelo Petrella, lo scrittore che ha aperto il dibattito qualche giorno fa sulle pagine de Il Fatto Quotidiano.

Ma cosa rende unica Napoli? Una città che nei secoli ha accolto ed è stata dominata da tantissime culture, senza mai perdere la propria identità? Ha ragione lo scrittore Pino Aprile quando dice che l’identità non è data dall’essere qualcosa ma dal fare qualcosa in modo originale e cioè nel rendere unico ciò che già esiste: ovvero non è una fiamma da custodire, ma un fuoco vivo che brucia. E Napoli nei secoli ha fatto proprio il cibo, i suoni e le idee che le sono arrivate nel tempo, prima dal mare e poi con i media, assorbendo come una spugna tutto per poi crearne qualcosa di nuovo.

È l’unica città italiana in cui si producono tutti i generi musicali possibili, dal folk all’elettronica, dal rock al pop, dal rap alla musica d’autore, senza mai perdere le proprie radici. Ma non essendoci case discografiche ed editori adeguati, gli artisti napoletani per raggiungere una platea nazionale hanno bisogno sempre di un quid in più che li leghi alla realtà storica.

In questa città tutto deve fare notizia, anche l’arte. È come se non bastasse scrivere belle canzoni e bei libri. È successo per la Napoli del dopoguerra raccontata da Norman Lewis e Anna Maria Ortese, che ha generato i Napoli Centrale del figlio della guerra James Senese, per poi arrivare a Pino Daniele e a tutto il Neapolitan Power, che è esploso davvero dopo il terremoto dell’80.

Poi è arrivato il papà dei neomelodici, Nino D’Angelo, a dare voce alle giovani fasce popolari di tutto l’hinterland napoletano travolte dal boom economico, un artista sdoganato solo dopo anni da Goffredo Fofi. E ancora la Napoli di Peppe Lanzetta, del rinascimento bassoliniano e dei centri sociali che ha partorito la triade: 24grana, 99Posse, Almamegretta e il fenomeno neomelodico capeggiato da Gigi D’Alessio. Nel nuovo millennio la scena rap ha dato voce a Gomorra, ovvero all’inferno della periferia napoletana dove comanda ‘o sistema, fino ad arrivare a Liberato che per arrivare alla stampa nazionale e ai grossi network si è dovuto “inventare” l’anonimato. Da Napoli ci si aspetta sempre qualcosa in più, il fenomeno, l’eccezionalità. E questo l’artista napoletano l’ha imparato bene: infatti spesso finisce per assecondare questa logica.

Negli anni gli artisti partenopei hanno affinato strategie per supplire alla mancanza di un’industria culturale. Anche per questo un cantautore, uno scrittore napoletano non può prescindere dalla propria città, un’autoreferenzialità spesso controproducente. Al punto che se va a vivere fuori Napoli è considerato un traditore. Un partigiano che ha abdicato a una guerra che ci vede soli contro tutti. Un’idealizzazione sciocca e romantica che tanto noi napoletani amiamo raccontarci. Napoli è un mondo a sé, capace di sopravvivere ai suoi eterni mali senza mai risolverli, raccontandoli.

Credo che il miglior augurio che ci si possa fare sia proprio la normalità e non solo per rilanciare la città – come giustamente scrive il giornalista Fabrizio Esposito, in risposta a Petrella. Ma forse c’è ancora una domanda da porsi: qual è il costo di questa normalità? Qualche giorno fa, parlandone con lo scrittore Maurizio De Giovanni, siamo giunti alla conclusione che se il costo è omologarsi al resto d’Italia diventa difficile capire se sia davvero un bene. Se diventare normali significa rinunciare alla nostra unicità, allora forse c’è da augurarsi che non cambi nulla.

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I leoni di Sicilia, la storia dei Florio è il sogno di chi si è fatto da solo

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“Era lì a portata di mano, una storia ricca, incredibile, che dalla Sicilia attraverso il mare porta in tutto il Mediterraneo e negli oceani lontani, ma ancora nessuno aveva pensato di raccontarla”. Stefania Auci descrive così l’inizio della sua avventura letteraria e umana che l’ha portata a riscoprire i Florio, la famiglia che per oltre un secolo ha scritto la storia di Palermo e della Sicilia. Mesi passati in archivio a cercare documenti, fotografie, indizi, racconti, a parlare con chiunque avesse informazioni, visitare i luoghi, le ville sontuose che segnarono la loro potenza e grandezza, così la Auci riesce a far riemergere un’epoca e la narra con un ritmo incalzante nel suo “I leoni di Sicilia. La saga dei Florio”, edito per i tipi di Nord.

Il perché della magia dei libri che scalano le classifiche non è stata ancora spiegato, ma questo volume letteralmente vola vendendo sin da subito migliaia di copie. Segreti, forse, non ce ne sono, perché il pregio di questo romanzo è la forza del racconto. Dapprima venditori di spezie, abili mercanti, armatori, imprenditori del tonno e del vino: l’ascesa dei Florio sembra inarrestabile e incarna il sogno di chi si è fatto da solo con la forza delle braccia e delle idee.

Ignazio e Paolo Florio iniziano la loro avventura a Bagnara, un paesino della Calabria dove l’unica ricchezza è il mare, hanno in società con il cognato una barca con la quale fanno il “traffico”, ma dopo l’ennesimo terremoto che distrugge la loro casa (intenso l’incipit della Auci che lo descrive) decidono di trasferirsi a Palermo, che è già una delle capitali del Mediterraneo.

Nessuno gli dà credito all’inizio, sono solo “bagnaroti”, un marchio che gli rimarrà impresso come il fuoco. Ma i Florio hanno qualcosa in più degli altri, sembrano anticipare le mosse, precorrere i tempi, arrivano per primi, sbaragliano la concorrenza e ci riescono anche quando gli equilibri politici ed economici cambiano, durante le sanguinose rivolte libertarie o le repressioni dei Borboni.

Con l’Unità d’Italia il loro avvocato è un tale Giolitti che gli assicurerà prosperità anche dopo l’avvento piemontese. Non gli viene negato nulla, neppure la nobiltà a lungo inseguita per la quale Vincenzo Florio è disposto persino a rinunciare all’amore. Ma loro sono gente autentica; spietati, è vero, ma sanno anche cedere ai sentimenti, così anche l’amore trionferà.

Insieme ai Paolo, Vincenzo e Ignazio ci sono le donne dei Florio, che sono a mio avviso le vere protagoniste della narrazione, a partire da Giuseppina per arrivare a Giulia, ma senza tralasciare nessuna delle figure femminili. Gran parte della scena è per loro, è nelle loro ansie, aspirazioni, visioni della vita, tanto che a volte la storia imprenditoriale sembra davvero fare da sfondo.

E’ dei personaggi che si innamora il lettore, sono le loro vicende anche minime, le piccole grandi tragedie a far rimanere in sospeso, attendere di voltare pagina per capire che succede. Un mix di storia, sogno, sentimenti: questo è riuscita a fare la Auci, che bene incarna le sue eroine. Ci siamo incontrati per pochi minuti ma l’impressione è chiara: dietro un’accogliente dolcezza le si legge un carattere e una determinazione degna dei “suoi” Florio.

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Istruzione, in Italia pochissimi laureati. Questo Paese si avvia all’obsolescenza (programmata)

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di Andrea Masala

Un dato interessante: il Parlamento della legislatura 2013-2018 è il primo parlamento dall’Unità d’Italia in cui i non laureati sono più dei laureati. Il primo dall’Unità d’Italia: il dato è molto forte e non deve condurci a considerazioni facili o sbagliate.

Prima considerazione facile: è colpa dei 5stelle. Invece gli eletti 5stelle avevano più laureati di tutti gli altri gruppi: probabilmente cognitariato.

Seconda considerazione facile: allora è più rappresentativo della società e più popolare. Qui va visto al rovescio e forse il problema non è un parlamento con pochi laureati ma una società che ha pochissimi laureati. In Italia infatti abbiamo il 26% di laureati (20 per i maschi e 33 per le donne) contro una media europea del 34% (44 le donne). La media europea: ma i Paesi che dovrebbero essere paragonabili al nostro ne hanno più del doppio.

Siamo penultimi, peggio di noi solo la Romania (di pochissimo), ma pure quei pochi laureati non vengono assorbiti dal mercato del lavoro interno, cioè la nostra imprenditoria non assume le competenze, competenze che sono costrette o a lavori sottopagati e sottoqualificati o a emigrare per andare a lavorare per aziende di paesi che hanno il doppio dei nostri laureati, che li impiegano tutti e a cui avanzano anche posti per i nostri.

Sicuramente abbiamo un problema di istruzione, ma deriva da un tessuto produttivo e da un ceto imprenditoriale totalmente refrattario e disinteressato alle alte competenze, che non sa competere su innovazione e sviluppo ma solo su compressione dei salari. Quando si parla di competenze, si dovrebbe partire da qui. Perché tra il bassissimo numero di giovani e il miserrimo numero di laureati il nostro Paese si avvia verso l’obsolescenza, ed è programmata.

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150 anni dalla Breccia di Porta Pia, ma la Chiesa continua ancora a ingerire

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di Valerio Pocar

Quest’anno ricorre il centocinquantesimo anniversario della breccia di Porta Pia. Poche date sono altrettanto importanti nella storia patria e non c’è città che non abbia una via dedicata al XX Settembre, ma da moltissimi anni questa data sembra rimossa dalla memoria collettiva e le celebrazioni sono parecchio in sordina. Forse però la memoria collettiva è più saggia di quella individuale e non senza ragione stima l’evento, che rese fatidica la data, piuttosto che un successo un’occasione perduta. Perduta e non colta al balzo, paradossalmente, da entrambe le parti in conflitto.

Per il Regno d’Italia avrebbe potuto rappresentare l’occasione per dare vita a uno Stato moderno, almeno per quanto riguarda le relazioni tra il potere ecclesiastico e il potere statale, secondo la formula cavourriana “libera Chiesa in libero Stato”. Senza scadere in atteggiamenti di anticlericalismo spesso parolaio e talora anche becero, lo Stato avrebbe potuto operare scelte di laicità senza compromessi. Così non è avvenuto e ancora adesso, a distanza di un secolo e mezzo, la laicità della Repubblica può essere revocata in dubbio, di fatto se non di diritto.

Per la Chiesa cattolica poteva essere l’occasione di liberarsi una volta per tutte del fardello del potere temporale – beninteso lamentandosi dell’abuso che ne la privava e così ottenendo grandiosi risarcimenti – per dedicarsi più fruttuosamente alla missione spirituale. Progetto neppure preso in considerazione dallo spirito di rivalsa di un offeso Pio IX, il quale però dopo Sedan non poteva più contare sui fucili francesi, come vent’anni prima, per riacquistare il potere temporale perduto. Legittimato tanti secoli prima col falso della cosiddetta Donazione di Costantino, il potere temporale sarà poi ripristinato dall’accordo scellerato dei Patti Lateranensi e dalle concessioni del fascismo, coi quali Patti entrambe le occasioni che si erano offerte allo Stato italiano e alla Chiesa cattolica vennero definitivamente rigettate, per lo Stato con le conseguenze delle quali tutti ancora soffriamo, giacché le pretese ecclesiastiche più che dall’intento di rappresentare la guida spirituale del Paese sembrano ispirate dalla volontà d’ingerirsi nelle sue vicende politiche.

[…]

Nel 1929, coi Patti Lateranensi, il regime fascista da un lato ripristinò il potere temporale dei papi tramite la costituzione del più piccolo stato del mondo, la Città del Vaticano, del quale il papa è il sovrano assoluto, l’ultimo rimasto, crediamo, sulla faccia della Terra e, dall’altro lato, introdusse numerosi elementi di clericalismo, quelli che ancora in buon misura ci affliggono.

La commistione tra i due poteri contraddice, almeno così pare a noi, i princìpi che la Chiesa asserisce di porre al fondamento della sua missione. Di questa contraddizione la Chiesa stessa sembra essere stata sempre consapevole, tant’è che nel corso dei secoli santi, teologi e gerarchie ecclesiastiche hanno argomentato nei modi più vari per giustificarla, recando alla fine l’unico argomento che per esercitare adeguatamente il potere spirituale occorre godere anche di un potere temporale. Forse questo argomento poteva avere un senso nell’alto Medioevo, quando l’insufficiente protezione dell’Occidente da parte dell’impero, soprattutto al fine di contrastare i Longobardi, suggerì al vescovo di Roma l’utilità del potere temporale, ma già con la costituzione del Sacro Romano Impero quella giustificazione sarebbe venuta meno. […]

Perché mai il potere temporale dovrebbe rappresentare il sostegno di quello spirituale, oggi? Quando nessun altra religione, tranne quella cattolica, ne sente il bisogno o briga per ottenerlo.

Il nostro paziente lettore potrebbe chiedersi perché ci stia tanto a cuore la critica del potere temporale del vescovo di Roma. Basterebbe rammentare l’ignominiosa origine della rifondazione del potere temporale e la costituzione stessa della Città del Vaticano, marchiata dal connubio tra clericali e fascisti. Basterebbe anche considerare i vantaggi politici ed economici di cui godono, proprio per la facoltà di riferirsi a un capo di Stato (estero), enti e persone che, anziché esercitare attività ispirate esclusivamente alle virtù, teologali e cardinali, alle quali si richiamano, possono sottrarsi a certi doveri cui sono tenuti gli altri cittadini italiani.

Ma forse v’è di più. Nutriamo il sospetto che alla base delle ingerenze nelle faccende della vita pubblica altrui ci sia proprio la tradizione temporale della Chiesa e che in questa tradizione affondi le radici il clericalismo, vuoi di certi ecclesiastici vuoi di certi sedicenti “laici”.

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Cosa unisce ancora noi italiani post-pandemici? Forse una testarda illusione

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L’ha anticipato il Presidente Mattarella nel messaggio di fine anno, sennò alzi la mano chi se ne sarebbe accorto. Centosessant’anni fa, il 17 marzo 1861, Vittorio Emanuele II, sino ad allora re di Sardegna, proclamò ufficialmente l’Unità d’Italia, assumendo per sé e discendenti il titolo di re. C’erano state la seconda guerra d’indipendenza, vinta sull’Austria-Ungheria con l’aiuto determinante della Francia, le annessioni della Lombardia austriaca, i plebisciti nel Centro papalino, la spedizione dei Mille nel Sud borbonico. E fra i grandi Stati europei non siamo neppure riusciti ad arrivare ultimi, sulla strada dell’unificazione: la Germania si aggiunse un decennio dopo. Forse potremmo considerarci ultimi contando anche Trento e Trieste, “redente” solo nel 1918, a prezzo del macello chiamato Grande Guerra. Sarà per questo che molti italiani, ignari della geografia, tendono a confonderle l’una con l’altra.

Inutile girarci attorno: che senso ha, centosessant’anni dopo, in un mondo divenuto piccolissimo e irriconoscibile, celebrare ancora quest’anniversario? Di fatto, la Festa dell’Unità, da non confondere con quella del PCI-PDS-PD, fu istituita cinquant’anni dopo l’unificazione, nel 1911, in un clima di fervente patriottismo poi sfociato nel macello di cui sopra. Quindi fu ancora celebrata con passabile entusiasmo in occasione del centenario, nel 1961: ma c’erano appena state le Olimpiadi di Roma, per non parlare del boom economico. Per i centocinquant’anni, nel 2011, c’è stato un po’ più di movimento, se non altro perché gli storici trovarono il modo di dividersi fra neo-sabaudi e neo-borbonici: che sarebbe come chiedersi, oggi, se preferire Zaia o De Luca. Insomma, essendo quella dell’Unità una festa solo civile, senza sospensione di scuole e lavoro, oggi già sospesi di loro, è difficile persino accorgersene, figurarsi scaldare i cuori

Come la celebreremo stavolta, in piena pandemia? Da remoto, a distanza? Eppure, o forse proprio per questo, le classifiche dei libri sono piene di longseller che identificano in Dante, a settecento anni dalla morte, il padre dell’identità italiana, oppure che si chiedono ancora come sono cambiati i neo-italiani, gli italiani post-pandemici, non in meglio, non in peggio, ma allora chissà. L’unica cosa in cui non cambieremo mai, oltre che nelle preferenze librarie, sta nel fatto che, attribuendoci una storia trimillenaria, mica solo secolare come i più modesti Stati Uniti, abbiamo un tale sproposito di anniversari che è un peccato non approfittarne. Anche quando, come in questo momento, non ci siamo mai sentiti così spaesati: specie noi genovesi-triestini, cittadini del mondo anche perché più lontani degli altri.

In effetti, cosa ci unisce ancora, noi italiani post-pandemici, voglio dire? Non la rete, dove si può essere indifferentemente qui o altrove, con l’unica differenza del fuso orario. Non le città e le Regioni, neppure più tricolori ma almeno quadricolori, per tacere delle sfumature di rosso, seppure amministrate da forze ormai quasi tutte rappresentate nel governo Draghi. Non l’Europa, ritrovata in extremis ma che ci attende al varco, sospettosa sulla nostra capacità di spendere i fondi promessi e nel frattempo incapace di farsi rispettare dalle multinazionali del farmaco.

Ecco, forse a unire noi neo-italiani post-pandemici è solo quanto segue. La ragionevole fiducia che l’Italia riuscirà a darci un piano vaccinale più comprensibile di quello delle diverse Regioni: anche perché non ci vuole molto. La caparbia speranza che l’Italia, ancora lei, presenterà davvero un Recovery Plan sufficiente a giustificare l’arrivo dei fondi europei, ma soprattutto a ridarci uno straccio di normalità. Infine, la testarda illusione che l’Italia, sempre lei, sarà persino capace di restituirci il futuro.

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Va’, pensiero, mini-storia del canto del Nabucco: da (presunto) inno mancato a ossessione leghista (e ritorno). Ma a Verdi piaceva Fratelli d’Italia

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Il centrodestra aveva appena fatto il pienone alle elezioni e così, nel torpore un po’ bovino dell’estate, si alzò Rocco Buttiglione e fece valere tutte le sue mostrine di ministro per le Politiche comunitarie con un temone che fece tremare l’intera Unione europea: l’inno di Mameli va sostituito, disse, è meglio il Va’, pensiero di Giuseppe Verdi. Come accade con le uscite strampalate dei ministri di tutti i tempi la cosa non fu fatta cadere nella sonnolenza di quel luglio di vent’anni fa come carità di patria (è il caso di dire) avrebbe voluto e come la tragedia del G8 di Genova purtroppo si prese la premura di fare di lì a qualche giorno. Al contrario l’uscita di Buttiglione quel giorno fu argomento da prima pagina e alleati di governo e partiti dello schieramento avversario si affollarono per dire la loro. Gli ex missini inviperiti, il compagno di partito di Buttiglione Marco Follini invitò a imparare a memoria il Canto degli Italiani di Mameli e Novaro mentre la compagna e basta, ex ministra dilibertiana, Katia Bellillo, rivendicò di saperlo già a menadito. Francesco Speroni – capo di gabinetto del ministro Umberto Bossi – passò subito alle avvertenze: giù le mani dal Va’, pensiero.

Il coro del Nabucco qualche anno prima infatti era stato infilato in uno dei 9 articoli della cosiddetta “Costituzione transitoria” della cosiddetta Padania. Alcuni giorni prima di quella Costituente che non costituì nulla, Bossi ne aveva dato un’interpretazione un po’ grossier, come da sua abitudine, commentando una rappresentazione all’Arena di Verona, dove peraltro era stato fischiato: “L’hanno fatto bene davvero. In basso gli schiavi, gli ebrei, cioè il popolo, cioè la Padania; in alto il Potere, cioè Scalfaro, cioè quel terun di Di Pietro. Va’, pensiero dovrebbe essere l’inno della Padania, anche se so che la musica è di tutti e c’è tanta gente al sud che ama Verdi. Ma se il Sud capirà che il nemico non è il Nord, ma è Roma, allora capirà anche il significato del Va’ pensiero”. Il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro si prese del tempo prima di rispondere e visto che i leghisti si erano fissati con questa cosa di Verdi da colorare di verde-carroccio alla fine affilò la lama del suo italiano: “Solo la non cultura può portare a ritenere che Va’ pensiero possa essere un canto di divisione e non il canto verdiano dell’aspirazione all’unità della Patria sì bella e perduta”. E c’è da dire che forse si era anche perso Mario Borghezio che in quanto leghista riteneva tutti i diritti riservati sulle note del Nabucco “scritte e pensate da un cuore lombardo”, laddove Verdi – come sanno anche i muri – è nato e lungamente ha vissuto a Busseto, vicino a Parma.

Eppure tutto questo infelice dibattito era già vecchio di dieci anni almeno se è vero che il capo del governo Bettino Craxi una volta confessò al suo ministro della Difesa Giovanni Spadolini che gli sarebbe proprio piaciuto proporre quel coro verdiano come inno al posto quello di Mameli. Il leader repubblicano però gli spiegò con parole più nobili di queste che c’entrava un po’ come il cavolo a merenda perché il Va’ pensiero era pur sempre un canto di dolore, nella fattispecie del popolo di Israele per la patria lontana. Non proprio una cosa da training autogeno di un popolo.

Quante mani a impiastricciare col coro verdiano. E allora: qual è la verità, nient’altro che la verità sul Va’, pensiero, presunto inno mancato? Molto di quello che di fondamentale c’è da sapere si trova in Va’, pensiero (Garzanti, serie Piccoli grandi libri, 64 pagg, 4,90 euro), mini-saggio di Alberto Mattioli, indiscusso e indiscutibile timoniere della musica lirica. Anche in questo caso l’autore usa la sua più grande abilità: spogliare del mito le storie molto terrene che circondano le spettacolari figure e le ganzissime storie del genio tutto italiano del recitar cantando e restituire loro, così, l’essenza autentica e un’immagine ancora più autorevole. Insomma una spolveratina serve a celebrarle meglio e più consapevolmente.

Con la consueta capacità di accompagnare il dominio assoluto delle informazioni con lo stile spumeggiante, quindi, Mattioli fa scoprire al lettore che no, Verdi quando scrisse quel coro della scena quarta della terza parte del Nabucco, nel 1842, non pensava affatto agli italiani soggiogati dai dominatori stranieri ma proprio a quelli che in effetti lo cantano nell’opera, cioè gli Ebrei soggiogati dai dominatori babilonesi.

Gli indizi sono parecchi. Per esempio, come Mattioli aveva già raccontato in Meno grigi più Verdi, il compositore emiliano all’epoca “non aveva ancora una coscienza politica definita”.

Inoltre – punto e partita a Spadolini – per Verdi Va’, pensiero è “un inno di dolore, non di riscossa”. “E bisognerebbe smetterla di bissarlo d’ufficio, anche quando non lo chiede nessuno” frusta come suo solito Mattioli. Per non parlare del fatto che il libretto, firmato dal poeta Temistocle Solera, segue quasi pedissequo un salmo, il 137, del relativo libro dell’Antico Testamento. Più prosaicamente si potrebbe aggiungere, fa notare Mattioli in questo pamphlet, che Nabucco è “umilmente dedicato a Sua Altezza Imperiale la Serenissima Arciduchessa Adelaide d’Austria”, cioè la figlia di Ranieri, cioè il viceré del Lombardo-Veneto fino al ’48 quando appunto accadde un quarantotto e fu sostituito dal feldmaresciallo Josef Radetzky. Cioè gli oppressori.

Verdi insieme ad Arrigo Boito (librettista di Otello e Falstaff) in una foto pubblicata all’epoca dalla “Gazzetta di Parma”

E allora il Verdi risorgimentale dove si nasconde se non nel Coro degli Ebrei e “sui clivi, sui colli / ove olezzano tepide e molli / l’aure dolci del suolo natal?”. Quel lato non è perduto anche se, come scrive Mattioli, un po’ ex post: Verdi “diventò o fu fatto diventare la statua di se stesso”. Dopo l’Unità, sottolinea il libretto, “l’intera storia nazionale venne riletta” in una “luce mitica”, infilandoci anche storie e personaggi “per nulla motivati dall’aspirazione dell’Unità: ‘arruolandoli‘”. Più chiaramente: Verdi al momento giusto tifò Italia, tutta intera e tutta unita (e qui la retorica bossian-leghista prende almeno tre pere), anzi diventa parlamentare – deputato e poi senatore – di quel Regno ai primi vagiti. Ma è solo dopo il successo del Nabucco – e non prima – che assume una consapevolezza civica e politica. Nabucco non nasce risorgimentale, ma lo diventa, ribadisce Mattioli, scavalcando i decenni e poi un paio di secoli, fino a conquistare l’immaginario collettivo, a trasformarsi in “emblema identitario”, “icona dei padri”.

Di un libro così piccolo è giusto raccontare il minimo indispensabile. Ma vale la pena di ricordare, per completezza, che con l’eterna sfida tra Va’, pensiero e il Canto degli Italiani di Goffredo Mameli e Michele Novaro (a proposito, c’è un Piccolo grande libro di Garzanti anche su questo, firmato dallo storico Stefano Pivato) si sono misurati tutti, anche i compositori. Dal punto di vista musicale si può pure dire che non c’è gara: l’Inno di Mameli non piaceva a Giacomo Puccini, non piaceva a Giuseppe Garibaldi. Eppure piaceva a lui, Verdi. Ammesso che ce ne freghi qualcosa, Buttiglione, Craxi, Bellillo, Follini, Speroni e perfino Borghezio sarebbero stati messi tutti d’accordo se avessero avuto migliore sorte i 2 minuti e 25 secondi di Suona la tromba, che ha le parole di Mameli, la musica di Verdi e la commissione (tipo producer) di Giuseppe Mazzini: una sorta di super-gruppo dei Padri della Patria.

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Livorno la rossa? Prima della nascita del Pci: perché e come la “città anarcopopolare” diventò la culla del comunismo italiano

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Livorno non fu un incidente della Storia. La trasformazione in partito del comunismo italiano, quelle poche centinaia di passi tra il teatro Goldoni e lo scalcinato teatro San Marco che fecero la storia d’Italia, non furono frutto del caso. Se ai giorni nostri l’impronta di Livorno la rossa assomiglia ai giorni nostri a uno stampino per ritratti di comodo, approfondire la strada che portò al 1921 suggerisce che non poteva che iniziare lì una storia politica, sociale e umana che sarebbe durata settant’anni. Una città nella quale il comunismo è diventato la declinazione inevitabile di un processo dai tanti nomi, dalle tante facce e dalle tante idee iniziato molto tempo prima, originato dall’humus dai tanti ingredienti dell’ex porto franco, rifugio di tutti gli ultimi d’Europa: gli ebrei perseguitati in Spagna, gli ugonotti cacciati dalla Francia da Luigi XIV e poi schiavi in fuga, criminali con carichi pendenti, debitori incalliti e bancarottieri, ladri e prostitute che con lo scudo delle Leggi Livornine videro garantita la loro libertà. Perché, dunque, fu proprio Livorno a veder nascere il Partito Comunista d’Italia? E’ la domanda a cui cerca di rispondere Livorno 1921 – Dentro e oltre la classe operaia (4Punte edizioni, 144 p., 15 euro), di Olimpia Capitano, storica, ricercatrice, studiosa di global labour history, collaboratrice de ilfattoquotidiano.it.

Popolare, ribelle, sovversiva, libertaria
Livorno comunista è il 1921, certo, ma è quasi di più ciò che c’è prima, sostiene Capitano. “Un prima – scrive – che del comunismo livornese è stato culla e matrice. Un prima in cui ha preso forma un’esperienza del tutto dissonante rispetto alle rappresentazioni posteriori” e cioè “qualcosa di completamente diverso dalla narrazione settaria di un partito di quadri, chiuso e indisponibile a un dialogo più largo”. Gli aggettivi che nello sviluppo del libro più di frequente sono accostati alla storia della città girano sempre intorno a libertaria, spontanea, popolare. Insomma, sottolinea Capitano, la città rossa era tale “soprattutto in quanto popolare, ribelle, sovversiva, aliena a qualsivoglia tipo di autorità costituita e, in un secondo momento, comunista”. Con quelle origini da melting pot volute consapevolmente dai Medici alla fine del Cinquecento per puntare sul nuovo porto del Granducato, “fu naturale per la città trasformarsi nel simbolo del ribellismo anarcopopolare”. Una città nata sulle spalle umili di “senza classe”, scrive Capitano. Nient’affatto facile mescolare culture, religioni, appartenenze, anzi: era una popolazione contraddistinta da “enormi differenze, contraddizioni e conflittualità, ma accomunata da una condizione di forte subalternità rispetto al ristretto nucleo sociale dominante”. Per questo si definì “una comunità storicamente poco incline a sottomettersi a un’unica cultura o all’autorità di governo”.

Ai tempi dei moti
Di rivolte è piena la (giovane) vita di Livorno. Ci volle del bello e del buono, per esempio, agli austriaci nel 1849 per avere ragione di qualche migliaio di ribelli che qui e a Firenze – un anno prima dell’avventurosa Repubblica Romana di Mazzini, Saffi e Armellini – non si accontentarono della Costituzione concessa da Leopoldo II di Lorena, granduca di Toscana, e ottennero un governo democratico, il primo in Italia, sebbene durò il tempo di un’idea. Venne Giuseppe Mazzini in persona ad annunciare la fuga del granduca (format non nuovo tra i sovrani). Agli austriaci questo intenso odore di monarchi ribaltati dal seggiolone vicino a casa propria non piaceva per niente e scesero in forze sulla costa toscana: per ogni combattente livornese si contavano dieci austriaci (per non parlare dello scarto tra gli armamenti). Servirono due giorni, il 10 e l’11 di maggio, perché le truppe austriache potessero avere ragione delle barricate livornesi. Al comando dei rivoltosi c’erano tra gli altri Andrea Sgarallino – che poi sarà tra i molti concittadini che ingrosseranno le file dei Mille di Garibaldi – ed Enrico Bartelloni, eroe risorgimentale che non vide mai l’unità d’Italia. Bottaio, quarant’anni, lo chiamavano il Gatto perché era un campione quando c’era da fuggire sui tetti. Nel momento della disfatta, però, non scelse la via di tegole e camini e rifiutò il disonore della fuga soprattutto perché vide che in quelle ultime ore la violenza austriaca non si accontentava della mera (ri)presa della città. A una guardia che per strada, a un posto di controllo, gli chiese chi fosse e dove andasse, lui rispose con un insulto per farsi arrestare: fu fucilato tre giorni dopo nella Fortezza Vecchia. Secondo alcune fonti la risposta del Gatto alla guardia fu più o meno la seguente: sono Enrico Bartelloni e vo dove cazzo mi pare.

La classe non solo operaia
A questo spirito che oggi qualcuno definirebbe anti-establishment si aggiunse poi lo sviluppo industriale e capitalistico che arricchì il porto ma non necessariamente la gente di Livorno. Qui il proletariato, spiega Capitano, “fu composto solo in parte da salariate e salariati dell’industria”. Era un prisma molto più variopinto formato da operai, navicellai, artigiani, facchini, portuali, barrocciai, pescatori, ferrovieri tessitrici, cenciaiole, corallaie, impagliatrici di fiaschi, filande e ancora ladri e prostitute: “Disoccupate e disoccupati, sottoproletari e sottoproletarie – sottolinea la storica – che condividevano il destino della marginalità e dello sfruttamento”. Una “composizione di classe eterogenea”, aggiunge, che definì “una realtà popolare difficile da assoggettare nel suo complesso”.

Il libro racconta della nascita in città di associazioni dei lavoratori negli anni Settanta dell’Ottocento – con tanto di benedizione di Bakunin in persona – e della nascita di un radicalismo politico che si traduceva nell’anarchismo e, in forma più istituzionale, nel Psi e nel repubblicanesimo intransigente mazziniano. Negli stessi giorni in cui Milano, nel maggio del 1898, insorse per la guerra del pane, Livorno si organizzava con comizi popolari, cortei in strada e scioperi di almeno 8mila tra lavoratrici e lavoratori, “dalle operaie della filanda di lana alle maestranze del cantiere navale Orlando e della Metallurgica”. Tutti i forni della città e dei sobborghi, ricostruisce Capitano, furono assaltati e svuotati in brevissimo tempo. Il 9 maggio venne dichiarato lo stato d’assedio, ma qui per un caso fortunato non c’erano generali stragisti alla Bava Beccaris.

Gli scioperi si moltiplicarono negli anni dell’inizio del Novecento, anche perché il proletariato livornese – ragiona la storica – si organizzò sul piano della rivendicazione sindacale piuttosto che su quello istituzionale. C’erano la fame e la miseria, non c’erano le case e non c’erano i soldi. A un mondo che si faceva sempre più complesso il fronte di sinistra a Livorno rispose – anche in questo anticipando il ’21 – con divisioni e diffidenze reciproche. E però, racconta Capitano, il Psi livornese negli anni Dieci “fu quasi costretto a spostarsi su posizioni e soprattutto su una retorica politica più massimaliste in risposta ai conflitti interni al partito e alla combattività sociale e operaia”. Ne andava dei voti nelle urne, quei pochi, s’intende, che erano ammessi in un tempo in cui il suffragio universale si vedeva solo col cannocchiale. Una svolta di “intransigenza” voluta – per “realismo politico” puntualizza Capitano – dal riformista Giuseppe Emanuele Modigliani, fratello maggiore del più noto, celebrato in tutto il mondo ben dopo la morte.

L’avversione per i poteri forti? Quasi istintiva
Con una sintesi molto efficace Livorno 1921 mette in fila i segmenti del quadro che accompagnerà Livorno fino al 1921, facendola diventare una delle capitali del Biennio rosso, e molto oltre. Da una parte, spiega Capitano, “il radicamento della tradizione anarcoide e la conseguente tendenza all’azione spontanea con una forte spinta sociale alla radicalizzazione politica”. Dall’altra il “sovversivismo”, cioè un “atteggiamento trasversale di radicale e quasi istintiva avversione nei confronti dell’ordine costituito, dei poteri forti, che già aveva animato il popolo minuto protagonista delle rivolte risorgimentali e di molti episodi rivendicativi e di protesta”. Infine tutto questo, sul piano politico, produce “forti tensioni partitiche che si manifestavano tanto tra le forze della sinistra quanto all’interno dei partiti stessi, specialmente quello socialista”. Alla base e all’interno del quale dopo il 1917 continua a rimbalzare la voce: Facciamo come in Russia.

Socialisti, anarchici, mazziniani, comunisti: l’osmosi di Livorno
In mezzo a questa inquietudine c’è la guerra – quella “Grande” – che impoverisce tutti e figurarsi chi povero lo era già prima. Alle elezioni del ’19 il Psi a Livorno vola a oltre la metà dei voti validi: a livello nazionale è condotto dal moderato Filippo Turati, ma in città c’è un pezzo del partito, più impaziente, che continua a sfiorarsi con l’area anarchica, intransigente, garibaldina, repubblicana. L’osmosi tra tutti questi modi di interpretare la realtà – e la volontà di migliorarla – non è un programma politico: è la vita di tutti i giorni. E ora si aggiungeva il comunismo. “Sono sempre stato un ribelle della società – racconta della sua gioventù il militante Emilio Valesini, citato nel libro – ed è per istinto di classe che andavo dai vari partiti di classe. Molte volte mio fratello Armando, socialista, mi portava al partito e spesso andavo al circolo repubblicano di via Pellegrini. Andavo anche al sindacato anarchico, tutto per farmi un’idea di quali erano le strade da percorrere nella mia vita”. Nacquero gruppi comuni, come Spartacus – formato nel quartiere “ribelle” di Ardenza da studenti – che si ispirava già dal nome alla Lega tedesca guidata da Rosa Luxemburg, ma anche come la “Lega proletaria degli invalidi, mutilati e reduci”, in sostanza Arditi di sinistra. Fino all’organizzazione di una guardia rossa, che con l’aumento degli assalti delle squadracce fasciste e la corrispondenza di amorosi sensi dei bastonatori con le forze dell’ordine e militari, divenne l’ultimo baluardo di fronte alla conquista violenta del potere dei mussoliniani: Livorno sarà l’ultima giunta comunale toscana a cadere nelle mani dei fascisti.

1921: perché Livorno
Per tutto questo dunque la scelta di Livorno come sede del congresso del Psi, quella metà di gennaio del 1921, non fu casuale, spiega Capitano: c’erano “ragioni di sicurezza” più “garantite che altrove dall’amministrazione socialista”, ma anche “dalla specificità del tessuto sociale”. Un anno e mezzo prima della Marcia su Roma “lo squadrismo fascista iniziava a mostrare i denti in modo sempre più violento – sottolinea ancora la storica – ma non riusciva a penetrare politicamente nel sostrato cittadino”. Qui neanche il primo fascismo ebbe le sue vaghe promesse “socialisteggianti”, come le definisce l’autrice, ma piuttosto si presentò subito come “un ottimo dispositivo di conservazione delle strutture di potere”: industriali, ufficiali di carriera, le loro rampanti proli. “In questo mondo dove tutti erano accomunati da un precario vivere alla giornata e sovente in contrasto con la legalità e l’ordinamento borghese tendeva a sfumarsi il confine tra proletari e sottoproletari”. Per questo il fascismo, spalleggiato da imprenditori e autorità, non attecchisce.

E’ l’unità contro le soverchierie dell’alleanza tra fascisti e “padroni” che spinge i comunisti livornesi a disobbedire anche alla linea ufficiale del partito a livello nazionale. E continuano a collaborare con le altre formazioni antifasciste. Nell’aprile 1921 promuovono un “Comitato di difesa proletaria“: dentro ci sono sindacati di tutti gli orientamenti (e i più combattivi sono i ferrovieri) e poi socialisti, comunisti, anarchici, gruppi studenteschi. Due mesi dopo nascono gli Arditi del popolo: è un’organizzazione paramilitare e anche in questo caso ci sono tutti, repubblicani compresi. Il Pci nazionale ribatte innervosito, non vuole che ci si mescoli agli altri partiti, scrive una lettera in cui ribadisce la linea. Ma che cade morta. “Giudicammo questo divieto un vero e proprio tradimento – testimonia nel libro Ilio Paperi, un militante – Lo respingemmo come assurdo e allora il compagno Barontini ci consigliò: quelli che ormai ci sono restino negli Arditi del popolo; ma operate da furbi e non compromettete il partito”.

L’assalto fascista alla città, l’ultima a cadere
Tra il 1921 e il 1922 si moltiplicarono scioperi e scontri di piazza tra forze antifasciste da una parte e fascisti sostenuti da carabinieri, guardie regie, esercito. La resistenza era piegata, mese dopo mese, con perquisizioni, rastrellamenti, fermi, sequestri delle armi di fortuna o artigianali: randelli, coltelli, rivoltelle, fucili da caccia, ordigni. Fu la lunga Battaglia di Livorno, come si intitola un altro volume uscito quest’anno, scritto dallo storico Marco Rossi (ed. Bfs, 178 pp., 16 euro). Cortei, scontri di piazza, scioperi, agguati: solo nell’agosto 1922 Livorno cade per effetto dell’azione delle truppe militari, forti dello stato d’assedio firmato dal governo. Il sindaco Uberto Mondolfi – un professore di Lettere, socialista, allievo di Giovanni Pascoli, amico di Amedeo Modigliani – rassegnò le dimissioni sotto le minacce dei fascisti, guidati tra gli altri da Costanzo Ciano, futuro ministro e presidente di quella specie Camera fascista e futuro Ganascia, soprannome nato dal sarcasmo dissacrante dei suoi concittadini per dare memoria imperitura ai suoi appetiti nei confronti cacciucco, baccalà e soprattutto affari frutto dei suoi mille conflitti d’interesse. “Sono le ore 12 – fu la minaccia di Ganascia a Mondolfi e alla giunta Psi-Pci – Alle due di oggi dovrete avere abbandonato Livorno, in caso contrario vi impiccheremo in piazza. Ci siamo intesi?”. Il marchese fiorentino Dino Perrone Compagni – capo dei fascisti in Toscana, picchiatore protagonista di numerosi assalti squadristi, massone, guerrafondaio – inviò un telegramma al segretario nazionale del Pnf, Michele Bianchi: “Fra le mie battaglie questa più faticosa”.

Barontini

“Operate da furbi e non compromettete il partito” disse il compagno Barontini ai militanti per “aggirare la linea” della dirigenza nazionale e mantenere l’alleanza con le altre forze antifasciste. Ilio Barontini, una specie di eroe romantico, combattente ovunque credeva ci fosse bisogno, un po’ Garibaldi e un po’ il Che. Nel libro di Capitano c’è un lungo capitolo dedicato a lui, che ha incarnato il comunismo “alla livornese”: anarchico, socialista, poi comunista, esule in Francia e poi in Russia, imparò la guerriglia in Cina e prese le armi nella guerra di Spagna – contro i franchisti -, di Etiopia – contro i fascisti -, di Francia – contro i nazisti -, e ovviamente nella Resistenza in Italia, dove fu il comandante partigiano in Emilia Romagna e che liberò Bologna. Il suo “unico scopo di vivere” – dirà – “è sempre stato la ricerca del buono e del giusto”. A Livorno non si dimenticano mai di aggiungere il suo nome di battaglia, Dario.

Fu lui in Francia a organizzare i partigiani comunisti dopo la presa del potere del maresciallo Pétain: gli antinazisti francesi usavano le bombe “Giobbe”, inventate da lui e chiamate così perché era il suo nome di battaglia. E’ in sostanza uno dei capi della Resistenza francese. A Marsiglia, racconta il suo allievo e compagno fidato Giovanni Pesce, fa saltare in aria l’hotel Terminus mentre c’è un banchetto di ufficiali nazisti. A Bologna usa lo stesso meccanismo per far esplodere l’hotel Baglioni, dove si è installata la Kommandantur, il comando militare tedesco. Il dirigente comunista romagnolo Arrigo Boldrini lo definisce “il cavaliere della libertà dei popoli”. Negli ultimi mesi di battaglia contro l’occupazione delle truppe di Hitler arruolava uomini con qualsiasi storia, fregandosene del loro passato di militari mandati in guerra per Franco da Mussolini o in Etiopia a conquistare il Corno d’Africa per quella specie di impero. Ora era tutto cambiato. “È questa ritrovata unità fra tutti noi il fatto più importante che ci assicurerà la vittoria”.

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Mazzini era repubblicano e perciò passò la vita in esilio: una coerenza che merita celebrazioni

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Il 10 marzo 1872 Giuseppe Mazzini muore a Pisa, nella casa della famiglia Nathan-Rosselli che lo ospitava. E così, quest’anno, corrono centocinquant’anni dalla sua morte. Ogni anno, per la ricorrenza del 10 marzo, associazioni mazziniane e talora anche istituzioni dello Stato ricordano questa figura. A maggior ragione anche quest’anno sarà così.

Mazzini lo merita, innanzitutto per la sua ferrea coerenza. Nel 1831, quando è in esilio a Marsiglia e ha 26 anni, fonda la Giovine Italia, un’organizzazione politica che ha l’obiettivo di costruire un’Italia repubblicana e democratica. Nel 1849, a Roma, guida il triumvirato della Repubblica Romana, una delle poche esperienze genuinamente democratiche del Risorgimento. Passa quasi tutta la sua vita in esilio, per cercare di realizzare la sua idea. E quando muore non ha ancora smesso di credere nell’ideale repubblicano. È anche, si dice spesso, uno dei padri della patria, poiché sin da giovanissimo crede nell’esistenza della nazione italiana. E così, ascoltando oggi qualche opinion maker che parla del Risorgimento, si può avere la sensazione che quello sia stato un movimento in cui Mazzini, Garibaldi, Cavour e Vittorio Emanuele II abbiano marciato compatti, uno al fianco dell’altro, per dare uno Stato alla nazione. La realtà delle cose, però, non è questa.

Mazzini è repubblicano e democratico. E non apprezza affatto l’esito dell’unificazione, che porta alla costruzione di uno Stato monarchico ed elitario. Per questo, dal suo esilio, continua a elaborare piani per una possibile insurrezione repubblicana. Ancora nell’estate del 1870, quando ha 65 anni, cerca di sfruttare la situazione di incertezza internazionale che si è aperta con lo scoppio della guerra franco-prussiana e il 14 agosto si reca a Palermo, dove viene arrestato dalla polizia ancora prima di sbarcare dalla nave, poiché considerato – a ragione – un pericolo per la stabilità del Regno d’Italia. Da Palermo viene portato nel carcere di Gaeta. Ci resta due mesi, e ci sarebbe rimasto probabilmente molto più a lungo se il 9 ottobre un’amnistia generale non gli avesse permesso di lasciare il carcere senza processo; egli, tuttavia, coerente fino in fondo, rifiuta di accettare la clemenza regia e se ne va a Londra, in esilio volontario.

All’inizio del 1872 torna di nuovo in Italia, a Pisa; viaggia sotto falso nome: si fa chiamare “dottor George Brown”, proprio perché è ancora ricercato dalla polizia del Regno d’Italia. Quando muore, e si diffonde la notizia, l’opinione pubblica si divide: da un lato, molte centinaia di migliaia di persone rendono omaggio alla sua salma in varie città italiane, quando passa in treno per andare a Genova, dove verrà inumata nel cimitero di Staglieno; dall’altro, il Parlamento approva un semplice voto di cordoglio, mentre il presidente della Camera vieta qualunque discorso di commemorazione e il presidente del Consiglio, Lanza, non pronuncia neanche una parola di ricordo.

E dunque, quand’è che Mazzini da pericoloso terrorista diventa uno dei padri della patria? Qualche decennio più tardi. Sono gli uomini della Sinistra liberale a compiere l’operazione, Crispi, in modo particolare. Sono gli uomini giusti: in gioventù sono stati mazziniani o garibaldini; poi hanno deciso di continuare l’azione politica nel Parlamento del Regno d’Italia; ma per farlo hanno dovuto giurare fedeltà al re e allo Statuto Albertino, e quindi hanno rinunciato alle loro idealità repubblicane. Nondimeno, il loro aver attraversato tutti i campi della politica risorgimentale li fa essere le persone adatte a costruire la nuova narrazione, quella di Mazzini, con Garibaldi, Cavour e Vittorio Emanuele armonicamente sottobraccio gli uni con gli altri. All’epoca non è stata altro che una mossa propagandistica, di autolegittimazione: col tempo è diventata una tenace “vulgata”, che ancora adesso abita – del tutto infondatamente – il nostro immaginario risorgimentale.

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L’Unità d’Italia si è costruita sull’ideologia nazionalista: celebriamola consapevolmente

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Il 17 marzo 1861 il parlamento del neonato Regno d’Italia approva la legge che attribuisce a Vittorio Emanuele II e ai suoi successori il titolo di Re d’Italia. Con una legge del 23 novembre 2012, il parlamento della Repubblica italiana “riconosce il giorno 17 marzo, data della proclamazione in Torino, nell’anno 1861, dell’Unità d’Italia, quale ‘Giornata dell’Unità nazionale, della Costituzione, dell’inno e della bandiera’”.

Non so se la data sia stata scelta così bene. Cioè, a voler essere pignoli, è un po’ strano che una Repubblica scelga di celebrare la nascita del proprio Stato, ricordando l’ascesa al trono di un re. Comunque, a parte questo, è certo che il processo di unificazione sia stato un momento fondamentale nella storia della Penisola, se non altro per un fatto: prima dell’unificazione gran parte della Penisola era amministrata da Stati privi di Costituzione e di istituti rappresentativi; dopo l’unificazione, l’intera Penisola (con l’eccezione delle terre ancora non aggregate al nuovo Stato) ha una Costituzione (lo Statuto Albertino) e un Parlamento. È vero che alla elezione della Camera può partecipare solo una percentuale minima della popolazione (maschi adulti alfabetizzati e ricchissimi): ma è qualcosa. È un passo che – pur con il drammatico contraccolpo novecentesco del fascismo – porterà all’ampliamento progressivo dei diritti di cittadinanza.

Questo, peraltro, è un punto delicato. Lo Stato unitario italiano è uno “Stato-nazione”. Cioè, come molti altri Stati ottocenteschi, è stato costruito in ragione del successo dell’ideologia nazionalista. E questo è un aspetto che si vede bene, quando si osservino le norme che regolano l’attribuzione della nazionalità, da cui derivano i diritti di cittadinanza, contenute nel Codice Civile del 1865. La nazionalità è attribuita seguendo quattro principi fondamentali:

1. lo ius sanguinis: è cittadino chi è figlio di padre cittadino, indipendentemente dal luogo di nascita (la declinazione è maschilista, come lo è tutto il diritto del Regno d’Italia – le donne non possono votare);

2. lo ius soli: è automaticamente cittadino il figlio di straniero che sia nato in Italia e risieda nel regno da almeno dieci anni ininterrotti;

3. lo ius connubii: una straniera che sposi un cittadino diventa cittadina, e conserva la cittadinanza anche da vedova, mentre “la donna cittadina che si marita a uno straniero diviene straniera”;

4. la naturalizzazione, che attribuisce i diritti civili e politici a una persona straniera ed è concessa per legge su richiesta dell’interessato (peraltro si registrano solo 13 casi di naturalizzazione dall’Unità alla fine del secolo).

Qual è la ratio complessiva di questo sistema? Lo spiega chiaramente Giuseppe Pisanelli, relatore del progetto di Codice Civile in parlamento: è ovvio – dice questo parlamentare – che lo ius sanguinis sia il principio fondamentale per l’attribuzione della nazionalità, “perché la razza è il precipuo elemento della nazionalità”. E Pisanelli non è il solo a palesare queste convinzioni: l’11 marzo 1861, quando Cavour presenta alla Camera il disegno di legge sul conferimento del titolo di re d’Italia a Vittorio Emanuele II e ai suoi discendenti, dice: l’Italia è una “nobile nazione che si fa una di reggimento e d’istituti, come una già la rendono la stirpe, la lingua, la religione, le memorie degli strazi sopportati e le speranze dell’intiero riscatto”. La razza; la stirpe; Manzoni qualche tempo prima aveva detto il sangue, oltre alle armi, alla lingua, all’altare, alle memorie e al cor. E siamo nel 1848, nel 1861, nel 1865, mica nel 1938.

E quindi: celebriamo senz’altro l’Unità, ma con la consapevolezza della complessità dei processi storici, e avendo ben chiaro in mente che cosa sia stato il nazionalismo ottocentesco.

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