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Channel: Unità d’Italia – Il Fatto Quotidiano
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Napolitano: “Basta con la guerra continua, serve rispetto reciproco”

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Basta con la “politica come guerra continua”, ci vuole “rispetto reciproco” tra gli schieramenti che “concorrono alla conquista della maggioranza nelle elezioni”. Giorgio Napolitano ribadisce l’invito ad abbassare i toni. Appena due giorni fa aveva difeso con forza la magistratura, bacchettando, senza citarlo, Silvio Berlusconi impegnato da mesi nella sua guerra personale contro i pm di Milano definiti ancora lunedì “cancro della democrazia” (leggi).

Oggi il presidente della Repubblica è tornato a invocare un confronto politico sereno, non belligerante. “Mi auguro un’Italia più serena, meno lacerata, meno divisa dove la lotta politica non sia una guerra continua e che ci sia rispetto tra le parti che fanno politica e che competono per la conquista della maggioranza alle elezioni”. Così il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano ha risposto ad una domanda di uno studente che, in collegamento internet durante la festa per la scuola per i 150 anni dell’unità d’Italia, gli ha chiesto come immaginasse l’Italia tra 50 anni.

“Da qui a 50 ani non so cosa sarà l’Italia, ma quello che mi auguro è che sia più serena e sicura di se, meno lacerata, meno divisa, un paese in cui la lotta politica non sia una guerra continua”, ha aggiunto il Capo dello Stato. Il Presidente della Repubblica ha fatto riferimento ai suoi viaggi per l’Italia per festeggiare il 1861. “Ho visto partecipare a questi festeggiamenti, a questi momenti di riflessione, italiani di tutte le età, di tutte le parti del paese, di tutte le generazioni. Di tutte le idee, al di là delle tante tesioni e divisioni che purtroppo affliggono il Paese”, ha detto. “Bisogna che l’Italia sia rispettata in campo internazionale per quello che sa dare, per il suo contributo, e per l’immagine che puo’ dare di se’ sul piano culturale, civile e morale”.

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2 giugno, Berlusconi tra i fischi. Presenti 80 delegazioni diplomatiche del mondo

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Nel 150esimo dell’Unità d’Italia, la Festa della Repubblica si fa più internazionale che mai. Le delegazioni diplomatiche di 80 Paesi sono volate in una Roma blindata, guidate da diversi capi di Stato. Almeno 40, tra cui il presidente russo Dmitrij Medvedev, quello israeliano Shimon Peres, quello dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen, re Juan Carlos di Spagna e il segretario di Stato delle Nazioni Unite Ban Ki-moon. In rappresentanza degli Stati Uniti partecipa il vicepresidente Joe Biden. Accolto tra moltissimi applausi il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, mentre alcuni fischi hanno raggiunto il premier Silvio Berlusconi. Per la prima volta alle celebrazioni partecipa anche il ministro dell’Interno, Roberto Maroni.

Accanto ai tradizionali festeggiamenti – come la deposizione della corona d’alloro sulla tomba del Milite ignoto, all’Altare della Patria, e la parata militare ai Fori imperiali – il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, ha in programma una serie di incontri. Prima un trilaterale con Medvedev e Biden, seguito subito dopo da quello con il presidente dell’Unione europea, Herman Van Rompuy, e quello afgano Hamid Karzai. Che intanto ha parlato fitto il vicepresidente Usa, seduto accanto a lui, poco prima dell’inizio delle celebrazioni. Domani per Berlusconi appuntamento con il presidente dell’Anp Abu Mazen. Chiusura con il gran galà al Quirinale: un’affollata cena e un concerto, omaggio del presidente della Repubblica alle delegazioni. E proprio Giorgio Napolitano aveva già incontrato ieri la presidente dell’Argentina, Cristina Kirchner, il segretario dell’Onu Ban Ki-moon e il vicepresidente cinese Xi Jinping, oltre a Biden e Medvedev.

I media israeliani non escludono oggi neanche un incontro a tre fra il rappresentante statunitense Biden e i presidenti di Israele e Anp, a margine delle celebrazioni del 2 giugno. Prima della partenza per Roma, Peres si era detto “pronto” a incontrare e a “stringere la mano come sempre” ad Abu Mazen. Che è stato definito dal collega “un partner per la pace” e “un interlocutore credibile”. Una linea più morbida, scelta da Peres, rispetto a quella del premier israeliano Benjamin Netanyahu.

Per l’evento, comunque, la città è blindata. Alla massiccia presenza internazionale corrisponde un dispiegamento di forze dell’ordine. Con più di 2mila tra soldati e agenti, tiratori scelti sui tetti e forze speciali. Vietato sorvolare la Capitale dall’alba fino alle 22 di stasera, mentre per l’accesso al pubblico all’area della celebrazione sono stati previsti due varchi, uno in piazza Venezia e l’altro in piazza del Colosseo. Già ieri, Roma era sotto controllo, con la bonifica delle sedi dove alloggiano le delegazioni e servizi di scorta per i loro spostamenti.

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Emilia Romagna festival tra classico e contemporaneo

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Facciamoci una pera. Di musica, però. E’ stato presentato ieri l’Emilia Romagna Festival 2011 diretto dal flautista Massimo Mercelli. Ed è proprio una pera William con al posto del picciolo il manico e le corde di un ipotetico contrabbasso, a fare da succoso richiamo per un cartellone estivo di musica classica e contemporanea dove si sperimenterà davvero l’impossibile.

Intanto l’Erf 2011 sosterà dal 7 luglio al 13 settembre in almeno quattro province della regione (Bologna, Ravenna, Ferrara, Forlì-Cesena e Rimini), con quarantasette concerti distribuiti su una trentina di comuni ospitanti, luoghi storici d’eccezione, spazi suggestivi dove ascoltare una originale selezione dal vivo.

La Rocca Sforzesca di Imola sarà assoluta protagonista della prima tranche di ERF, tanto che sia l’anteprima del 17 di giugno con la Pasion Argentina, eseguita dal Gruppo del Barrio, che l’inaugurazione vera e propria del 7 luglio con l’Orchestra e Coro delle Voci Bianche del Teatro alla Scala si terranno proprio all’interno della fortificazione tardo medioevali alle porte della città.

Non da meno la Rocca sarà scenario e sfondo di Anestesia Totale (12 luglio), lo spettacolo scritto e diretto da Marco Travaglio, con la partecipazione di Isabella Ferrari e l’aggiunta di Valentino Corvino alla viola.

Sempre tra le mura fortificate imolesi si prospetta davvero qualcosa di curioso per questo L’elmo di Scipio con l’orchestra regionale dell’Emilia-Romagna diretta da Alessandro Nidi, intenta a rieseguire in chiave sinfonica arie di Verdi e brani di Francesco De Gregori, Bruno Lauzi, Gino Paoli, Paolo Conte e Nino Rota. Tema centrale: l’unità d’Italia. Quindi, per fare un esempio, dal cofanetto De Gregori verranno riarrangiate Viva l’Italia, Il bandito e il campione, La leva calcistica del ’68.

Altri due appuntamenti imperdibili sono Figaro il barbiere e Mozart alias Rossini che avranno come comune denominatore Elio, ovvero Stefano Belisari leader degli Elio e le storie tese. Il primo concerto si terrà al teatro Petrella di Longiano (14-15 luglio) con Elio voce narrante, Roberto Fabbriciani al flauto, Fabio Battistelli al clarinetto e Massimiliano Damerini al pianoforte. Mozart alias Rossini (31 agosto, Teatro di largo Cappuccini a Cesenatico), invece, vedrà Elio cantante lirico accompagnato da I fiati associati coordinati dallo stesso direttore artistico Massimo Mercelli.

E ancora: venerdì 15 luglio la bizzarra violinista Iva Bittova metterà in scena The roots of soul nell’Arena delle Balle di Paglia a Cotignola, amena località immersa nel verde dei campi romagnoli a cui si accede dopo una ventina di minuti di passeggiata.

Infine il 27 agosto l’appuntamento clou presso l’abbazia di Monteveglio con il flauto di Massimo Marcelli che duetterà con il pianoforte di Luis Bacalov, premio oscar per Il postino su musiche di Astor Piazzolla, Ennio Morricone, Michael Nyman e Philiph Glass.

ERF 2011, nonostante i tempi di crisi ha un budget di oltre 550000 euro, suddivisi con un 20% di finanziamento pubblico (principalmente la regione emilia-romagna) e un 80% di privati. I biglietti si acquistano in anticipo anche online. Per ogni informazione sul web l’ottimo sito www.erfestival.org.

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Ovazione per Travaglio alla festa di Fli (video) “In Italia, sinistra e destra peggiori d’Europa”

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Pubblico delle grandi occasioni e applausi a scena aperta per Marco Travaglio che parla di destra, di sinistra, di legalità e di referendum. Non siamo in Versilia, dove si celebra la festa de il Fatto quotidiano, ma a Mirabello. La festa è quella Tricolore di Futuro e libertà. Il vice direttore del Fatto è stato invitato come relatore per parlare di “Italia 150”.

Con lui, assieme ai deputati finiani Gianfranco Paglia, Roberto Menia e Fabio Granata, c’è anche Arturo Parisi. L’ex ministro della Difesa è tra i promotori del comitato per il referendum che chiede l’abolizione del “porcellum” e ha appena fatto la sua entrata a Mirabello accompagnando Paglia al banchetto delle firme. “Sono qui assieme agli amici di Fli per condividere lo stesso obiettivo”, sorride il deputato Pd che, parlando del 150° dell’Unità, abbozza uno slogan che va oltre D’Azeglio: “l’Italia è nostra madre ma anche nostra figlia; se prima si diceva fatta l’Italia dobbiamo fare gli italiani, ora direi che fatti gli italiani dobbiamo rifare l’Italia”.

Poi la scena è tutta per Travaglio. A chi gli chiede come saranno, passati i primi 150, i prossimi anni si arma di sarcasmo: “speriamo che ci siano i prossimi 150 anni. Il dubbio riguarda anche i prossimi 15 anni, perché il rischio che l’Italia diventi uno sportello della Bce è concreto”. “In Europa – si fa serio – si dibatte se sia il caso di salvarci o di lasciarci al nostro destino. Credo che si sia persa un’occasione in questo centocinquantennale di ricordare come è stato possibile che si facesse l’unità d’Italia, cioè con degli uomini politici che si occupavano degli interessi generali anziché degli affari loro ed erano tutti di destra tra l’altro. E questo dovrebbe insegnare qualcosa alla destra attualmente al governo”.

Qualche esempio? Partiamo con Cavour, speculatore finanziario, che smise di giocare in Borsa quando diventò ministro e che quando il banchiere Rothschild gli regalò una tinca, rifiutò dopo aver saputo che era stata pescata in acque demaniali. Oppure Ricasoli, produttore di Chianti, che chiese a La Nazione di omettere la parole chianti dalle cronache locali per non farsi pubblicità indiretta. Viene quindi Quintino Sella, che vendette le sue aziende tessili nel biellese quando fu nominato ministro delle finanze per non cadere in conflitto di interessi.

Oggi invece in Italia “ci sono due grossi problemi: la sinistra peggiore dell’occidente e la destra peggiore dell’occidente. Così la democrazia non funziona. Avremmo bisogno di una destra e di una sinistra degne di questo nome”.

Qual è allora, per mutuare il titolo della kermesse finiana, l’Italia in cui credere? “Parlare di destra o sinistra è un lusso che non ci si può permettere – è la risposta del giornalista -. Qui c’è l’onorevole Parisi che raccoglie firme per il referendum che coinvolge cittadini di destra e di sinistra schifati da una legge elettorale che regala ai segretari di partito tutto il potere di nominarsi i propri parlamentari di fiducia e penso che, in questo momento, il crinale per l’Italia sia proprio quello della questione della legalità”.

Non poteva mancare una stoccata al bersaglio preferito, Berlusconi. “Quando ogni anno i governi snocciolano il rosario dei 130 miliardi sottratti dagli evasori al fisco, dei 150 miliardi di patrimoni mafiosi non tassati e dei danni della corruzione pensiamo ancora se metterlo in quel posto agli studenti, ai pensionati o agli statali. D’altronde questo governo non può combattere l’evasione fiscale, la mafia e la corruzione visto che ha un presidente del consiglio coinvolto in indagini per evasione, mafia e corruzione”. Applausi.

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Bologna vista con l’occhio dei fotoamatori (photogallery)

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Una giornata particolare, anzi due. Sono partiti dal 16 e 17 marzo 2011 i fotografi non professionisti di tutta Italia aderenti all’associazione Culturale Provediemozioni.it, per effettuare i loro scatti amatoriali con l’intento di raccogliere immagini e testimonianze di Bologna, ma non solo.

Infatti, identica iniziativa è avvenuta nelle stesse due giornate in altre duecento città d’Italia, in modo da comporre oggi un florilegio di duecento mostre che si terranno in contemporanea anche in altri importanti capoluoghi di provincia italiana.

A Bologna l’esposizione di 50 scatti a colori, formato 45×60, accompagnati dalle parole di Stefano Santarsiere e realizzati da una trentina di soci autoctoni dell’associazione organizzatrice, verrà ospitata nella Sala d’Ercole di Palazzo d’Accursio dalle 10 alle 18, ogni giorno dal 21 settembre al 4 ottobre.

Si tratta di un progetto fotografico per raccontare e documentare l’Italia a 150 anni dalla sua nascita (il 16 e il 17 marzo sono lì a testimoniarlo) con un preciso spirito collettivo. Tutti i partecipanti si sono impegnati a fotografare i mille angoli del nostro paese tutti insieme e nelle stesse ore, rendendo viva e visibile un’unità d’intenti, di tradizione e cultura nazionale.

La mostra bolognese è divisa in cinque temi: storie e identità, paesaggio, ambiente ed energia, lavoro, scienza e tecnologia, vita quotidiana. Tasselli di un racconto corale, con le immagini di gente che lavora e i luoghi di socializzazione, le case, le piazze e i luoghi della memoria. “Le stanze di Palazzo d’Accursio possono diventare un deposito dei sentimenti e dei ricordi di questa città”, ha spiegato commosso Francesco Berti Arnoaldi Veli, presidente della Federazione Italiana Associazione Partigiani che sostiene l’evento, “per me che sessantasei anni fa incontrai il sindaco Dozza proprio nella sala d’Ercole sede della mostra con Bologna appena liberata”.

Ecco allora che le decine di scatti che spaziano tra monumenti storici, spazi moderni e luoghi laicamente sacri di Bologna, sembrano costruire un legame affettivo che parte proprio da quel 16-17 marzo 1861, passa dal triennio 1943-45 e conclude la sua parabola con la ricostruzione del paese e della città dagli anni Cinquanta ad oggi.

L’ingresso alla mostra è gratuito.

(d.t.)

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Il valore dell’unità nazionale

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Stefano Rodotà fa bene a indicare la natura eversiva dei continui proclami di secessione cui ricorrono Bossi e gli altri leghisti. Si tratta di un partito che ha costantemente agitato questo spauracchio, a volte insieme addirittura a quello della lotta armata, e che peraltro si è caratterizzato per posizioni xenofobe e razziste, fino ad esprimere comprensione per l’autore dei massacri norvegesi per bocca del suo esponente Borghezio. Ora la misura è davvero colma.

Non solo la secessione non è prevista in Costituzione, che al contrario dedica uno dei suoi articoli fondamentali all’unità della Repubblica, ma neanche si può invocare, sul piano del diritto internazionale, il diritto all’autodeterminazione dei popoli. Infatti, non esiste, mai è esistito e mai esisterà un “popolo padano”, nonostante i patetici tentativi dei leghisti di inventarsi mitologie nazionali. E questo a prescindere dal contenuto concreto del diritto di autodeterminazione e dei suoi presupposti, sui quali rinvio all’articolo sulla questione kurda che ho pubblicato nel 1997 sulla rivista Affari esteri.

Il federalismo, invocato a parole, viene negato nei fatti, comprimendo la capacità di spesa delle autonomie territoriali. In realtà, nell’impreciso gergo politico leghista, “federalismo” non significa rispetto per le autonomie, ma bensì smembramento della comunità nazionale, ovvero l’imposizione dell’impossibilità di invocare diritti che siano uguali per tutte e tutti, da Aosta fino a Lampedusa, per non parlare degli immigrati che si vorrebbero costretti in eterno nella condizione di meteci, o meglio iloti, quindi schiavi, privi di qualsiasi diritto.

In questo senso, non solo i leghisti, ma il governo Berlusconi e le forze economicamente dominanti attaccano e minano il sacro valore dell’unità nazionale. Proprio quest’anno, in cui cade il centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia, il popolo italiano ha dimostrato il suo attaccamento a questo valore. Bisogna muoversi per realizzarlo nei fatti, rimuovendo, con una politica di effettiva solidarietà sociale e nazionale, le disparità esistenti, siano esse di natura territoriale o sociale. Questo è il modo migliore per rispondere alla crisi.

Il fatto che invece Bossi & C. traggano spunto dalla crisi per rilanciare il discorso della secessione getta luce sulla loro natura di spregevoli opportunisti, che andrebbero espulsi dalla scena politica. E’ stato importante quindi che centinaia di giovani abbiamo manifestato contro la Lega a Venezia.

Può sembrare paradossale, ma non a chi conosce la storia d’Italia, che siano i centri sociali e i settori del sindacalismo vero a impugnare oggi la bandiera della lotta al secessionismo. Ci sono in effetti almeno due modi di guardare all’unità nazionale. Il primo consiste nel “superare” i contrasti e la lotta di classe per riaffermare in sostanza la validità del sistema attuale. Il secondo prevede invece la critica a fondo e il superamento del sistema per distribuire in modo effettivamente equo gli oneri e conquistare un nuovo senso dello stare insieme, contro ogni razzismo e separatismo.

Mi pare evidente che è del secondo tipo di unità nazionale che abbiamo oggi bisogno anche perché il sistema vigente si palesa insostenibile anche dal punto di vista dell’economia, specie dopo il ventennio di berlusconismo, più o meno temperato da brevi interruzioni di inconcludente centro-sinistra, che abbiamo subito e continuiamo a subire, si spera ancora per poco. E perché noi italiani abbiamo tutti bisogno gli uni degli altri, così come abbiamo bisogno dei milioni di immigrati che vivono sul nostro territorio e che devono diventare quanto prima cittadini italiani a tutti gli effetti. Perché l’Italia è il Paese multiculturale per eccellenza, come dimostra la sua storia di secoli e millenni.

E va condannata la repressione poliziesca ordinata illegittimamente da un ministro degli Interni come Maroni, che al contempo continua ad inneggiare al secessionismo. Un paradosso, questo sì, da eliminare al più presto, gettando la Lega Nord nel posto che più le è consono: la pattumiera della storia. Insieme, beninteso, al suo chaperon Berlusconi e al suo codazzo di cortigiani, nonché ai liberisti esasperati che continuano ad invocare il mercato come decisore di ultima istanza. La storia, a ben vedere, già li ha sconfitti, il popolo italiano dica la sua al riguardo, difendendo e attuando, in ogni suo aspetto, la Costituzione repubblicana per ottenere la quale si sono sacrificati, nella lotta contro il nazifascismo, i suoi figli migliori, da Antonio Gramsci ai fratelli Rosselli, dai fratelli Cervi ad Eugenio Curiel, a tanti altri, uomini e donne, del Nord e del Sud.

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Nuovo monito di Napolitano “Chi guida il Paese dia speranza all’Italia”

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Invito al rispetto della Costituzione da parte del pubblico al passaggio del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano prima della cerimonia di inaugurazione dell'anno scolastico 2011-2012

“Tutti noi che abbiamo responsabilità nella guida del Paese, abbiamo il dovere di darvi speranza, di darvi seriamente motivi di fiducia nel domani”. Giorgio Napolitano, rivolgendosi ai ragazzi presenti al Quirinale per la Cerimonia dell’inaugurazione dell’anno scolastico, è tornato sul tema della responsabilità che la classe politica ha nei confronti del Paese.

“E’ venuto un altro di quei momenti in cui bisogna riuscire a fare un grande sforzo, noi italiani, noi Italia unita, per garantirci un degno futuro, per garantirlo alle generazioni più giovani. Occorre essere in tanti a fare ciascuno la sua parte”, ha aggiunto il Presidente della Repubblica. “Dalla nostra storia ricaviamo motivi di orgoglio per quello che abbiamo costruito e di fiducia per come l’Italia ha saputo superare momenti drammatici, prove molto dure e difficili”. Per questo, è importante “riconfermare il valore storico e attuale di un’Italia unita, rispettosa dei principi democratici incardinati nella nostra Costituzione, capace di contare nel mondo d’oggi”. E’, insomma, quel richiamo, reiterato, del Capo dello Stato ad una coesione nazionale di fronte al “peso delle gravi difficoltà che l’Italia sta affrontando”, un peso “che si è fatto sentire” e che comporta un rischio per il Paese nel quadro europeo.

“Il benessere non solo in seno alla famiglia, ma anche nella società e nel Paese sono solo in piccola parte un regalo della buona sorte o qualcosa di acquisito per sempre, ma sono invece soprattutto il frutto di una conquista quotidiana che premia il nostro impegno, la comprensione e la tolleranza nei confronti degli altri, la capacità di lavorare insieme, la competenza con cui sappiamo risolvere problemi, il desiderio di aprire nuove prospettive”. Chi ha la responsabilità di guidare il Paese, ha sottolineato il Capo dello Stato, ha “il dovere di dare speranza e motivi di fiducia nel domani”, soprattutto alle giovani generazioni, e quindi anche a quel mondo della scuola che ha fornito un contributo “determinante e straordinario” ai festeggiamenti e alle iniziative per i 150 anni dell’Unità d’Italia. Senza quel contributo, ha detto Napolitano, “non potremmo parlare di una grande risposta collettiva, di una grande mobilitazione come quella che c’è stata in tutto il Paese”.

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“Chi guida il Paese dia speranza all’Italia”
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Insulti al tricolore, Gasparri: “Bossi è folcloristico”

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“Somaro chi lo espone”. Così Umberto Bossi ha apostrofato i sostenitori del tricolore. “Solo folclore”, minimizza Maurizio Gasparri a ilfattoquotidiano.it. Il parlamentare Pdl risponde così al leader della Lega e lo fa durante un’iniziativa, “Crociera tricolore”, per i 150 anni dell’Unità d’Italia. tutto targato Pdl, ovvio. Dove non manca una venatura nostalgica. Il primo ottobre è previsto alle 15 lo sbarco a Salò con “visita del centro studi e documentazione sul periodo storico della Repubblica sociale italiana o nella sede della magnifica Patria o dell’Ateneo di Salò”. Ma la maggioranza è chiamata domani a misurare la sua tenuta sul voto di sfiducia per il ministro Saverio Romano, indagato per concorso esterno in associazione mafiosa, e qui Gasparri attacca: “Non è neanche rinviato a giudizio”.
Servizio di Nello Trocchia

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Se l’asse Pdl-Lega val bene una secessione

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Ma sì, chissenefrega anche dell’Unità nazionale. Pur di non far naufragare la sempre più traballante alleanza con la Lega Nord, certi dirigenti del Pdl sono disposti a rinnegare persino quell’Amor patrio tanto caro agli ex aennini (e a chiunque abbia un minimo di rispetto per la Carta costituzionale). Nel tempo in cui dalle parti del Carroccio è ripreso a soffiare con rinnovata violenza il vento dell’autonomismo elettorale e le raffiche si fanno sempre più frequenti e minacciose, qualche concessione, neanche troppo velata, alle boutade secessioniste di Bossi e compagni si può anche concedere. Succede per esempio ad Alessandria, dove un consigliere comunale del Pdl, Emanuele Locci, è stato messo in croce per avere difeso il tricolore dagli attacchi del Senatur: “In Italia ci sono milioni di somari che vanno fieri della bandiera tricolore, Bossi la finisca con le sue pagliacciate”.

Parole talmente ‘scandalose’ da far andare su tutte le furie il governatore del Piemonte Roberto Cota, che, secondo alcuni quotidiani locali, avrebbe chiesto al Pdl di tagliare fuori Locci dalle liste del partito per le prossime amministrative. L’esclusione per il momento non è ancora avvenuta (il consigliere pidiellino può contare sull’appoggio del ministro Meloni), ieri però il coordinamento cittadino del Popolo della Libertà ha rilasciato un comunicato di fuoco in cui dice chiaramente di “non condividere le dichiarazioni di qualche esponente del centrodestra in merito all’unità del Paese”. In pratica: un consigliere dice che sventolare il Tricolore non è da somari, e il Pdl anziché accodarsi, o quantomeno – se l’obiettivo è evitare attriti con gli alleati – chiudere un occhio, far finta di niente, nicchiare, sceglie di attaccare frontalmente un proprio esponente che difende la bandiera nazionale, arrivando a mettere in discussione anche l’Unità d’Italia, nel 150° anniversario, tra l’altro.

Locci si dice stupefatto. “Io capisco le ragioni della politica, la mediazione, il compromesso, il dialogo. Ma questo non vuol dire rinunciare ai valori fondanti della propria identità, primo fra tutti l’Unità d’Italia, in nome degli interessi di coalizione”. I suoi colleghi di partito evidentemente non la pensano così. L’asse del Nord val bene una messa. In onore del dio Po, s’intende.

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Qui si rifà l’Italia!

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“Qui si rifà l’Italia!” è il titolo (se ricordo bene) di una parte dell’esposizione alle ex Officine Grandi Riparazioni (Ogr) di Torino. Si tratta di una delle iniziative per il 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia organizzate a Torino, prima capitale dell’allora Regno.

Ho approfittato del ponte dei Santi per tornare a Torino e – tra le altre cose – visitare le Ogr. Per chi non lo sapesse alle Ogr una volta si riparavano i treni, per cui l’edificio è piuttosto imponente e i soffitti altissimi. Neanche a dirlo, fa un freddo cane.

Però le diverse parti dell’esposizione sono fatte bene, interessanti per piccoli e grandi e – al netto di una certa pomposità nazionalistica probabilmente impercettibile ai non espatriati – il recupero di questa ex area industriale è sicuramente da elogiare.

A me la cosa che è piaciuta di più è che gli organizzatori, senza volerlo, hanno creato una gigantesca metafora del Paese oggi.

Facendo quello che si fa quando si visita una mostra, cioè guardando quello che è esposto, si vedono pannelli luccicanti, schermi trasparenti, sipari mobili, tecnologie più o meno innovative, decine e decine di schermi piatti di varie dimensioni, insomma una mostra di un certo livello tecnologico/scenografico oltre che culturale.

Guardando oltre, o meglio, o semplicemente in alto, si nota l’edificio: imponente appunto, e bello nella sua gloria decaduta, ma soprattutto non adatto – perché non reso tale – ad ospitare la mostra. Dietro ai pannelli luccicanti i muri sono scrostati come probabilmente lo sono rimasti per anni. Le enormi finestre hanno giusto ottenuto uno spruzzo di schiuma isolante (a vista) per chiudere gli spifferi più grandi. Il tetto non regge la pioggia incessante dei primi giorni di novembre, e ne lascia passare una certa quantità in diversi punti del percorso.

Ci spostiamo nella sezione sull’innovazione, sul futuro. Una ‘stazione’ parla di come le case del futuro saranno ecologiche e risparmieranno (o addirittura produrranno) energia; leggiamo il messaggio battendo i denti per un edificio immenso scaldato alla meglio. Un’altra ‘stazione’ magnifica la digitalizzazione dello Stivale, mentre pannelli luminosi ci sparano dati sui kg di pasta consumati nelle ultime ore, i nati e morti della giornata e altre amenità. Leggiamo stupiti a fianco di un aereo solare la cui coda è coperta da un telo per ripararlo dalla fontana che, dal tetto, si rovescia proprio sul povero velivolo innovativo. Un’addetta alle pulizie stancamente spalma la pozzanghera sotto l’aereo, non si capisce bene a quale fine.

Quando si cercano i bagni, si scopre che non ce ne sono. Ovvero, nessuno ha pensato di aggiungerli all’edificio. Sono fuori, alla pioggia, prefabbricati e in gran parte guasti.

Prima di rimetterci in cammino verso la macchina (ovviamente niente parcheggio annesso alle Ogr) facciamo pranzo ed ecco l’apoteosi della metafora.

Il ristorante è, in effetti, pieno.

Ma possibile che nessuno abbia pensato alle riforme strutturali?

Disclaimer: Come riportato nella bio, il contenuto di questo e degli altri articoli del mio blog è frutto di opinioni personali e non impegna in alcun modo la Commissione europea.

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L’Italia dei comuni, ducati e principati

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Dante AlighieriQuesta volta le bacchettate sulle dita arrivano dalla Francia: da Slate ci ricordano che se siamo sommersi di problemi è in fondo perchè 150 anni fa ci siamo unificati poco, in fretta e male – e d’altronde non poteva che essere così, trattandosi di un paese diviso fin dai tempi di Giulio Cesare.
Nel semplificare, tuttavia, si corre sempre il rischio di banalizzare. “L’Italia del dopoguerra fu da un certo punto di vista, un gran successo,” scrive Slate. Non la pensava così invece l’ultimo Pasolini, secondo cui il caos italiano è dovuto “alla crisi di ‘crescenza’ dell’Italia, che è passata rapidamente da paese sottosviluppato a paese sviluppato. Tutto questo è avvenuto nell’arco di cinque, sei, sette anni
[il dopoguerra,  ndr]. Sarebbe come prendere una famiglia povera e farla diventare miliardaria, perderebbe la propria identità.”
I vichinghi di Oslo si sentivano distanti da quelli Bergen tanto quanto un pisano da un fiorentino. Nonostante esistano certe radici storiche per le quali noi italiani siamo quello che siamo, non c’è nulla che qualche decennio di educazione al senso civico (leggi: amor proprio) non possa aggiustare. Proprio come è accaduto ai fortunati vichinghi lontani, mentre noi eravamo impegnati ad arricchirci. E basta.

di Lillo Montalto Monella

La fine originale dell’Italia
Pubblicato il 2 dicembre 2011
Autore: David Gilmour*
Testata: Slate
Traduzione a cura di Claudia Marruccelli per Italiadallestero.info

L’Italia è in rovina, sia politicamente sia economicamente. Di fronte a un massiccio debito pubblico e alle defezioni all’interno della propria coalizione in Parlamento, il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, la più importante figura politica al governo dai tempi di Benito Mussolini, a metà novembre ha rassegnato le dimissioni. Ma le preoccupazioni dell’Italia non si riferiscono soltanto alle pietose performance politiche di Berlusconi e alle sue cavolate: nel paese, l’identità nazionale è fragile e sono ormai pochi gli italiani che credono nei suoi miti fondatori. Da qui nascono tutti i problemi.

L’affrettata e maldestra unità d’Italia conseguita nel XIX secolo, seguita dell’era fascista e dalla sconfitta nella seconda Guerra Mondiale nel XX secolo, in effetti ha lasciato il paese privo di senso nazionalistico. Forse la cosa non avrebbe avuto importanza se lo stato post fascista si fosse rivelato un buon direttore d’orchestra dell’economia, ma anche e soprattutto se i cittadini avessero potuto identificarsi e avere fiducia in esso. Ma in questi ultimi 60 anni, la Repubblica italiana non è riuscita ad assicurare una dirigenza efficace, ad affrontare la corruzione, a salvaguardare l’ambiente, neppure a proteggere i propri cittadini dall’oppressione e dalla violenza della mafia, della camorra e di altre organizzazioni criminali. Oggi, nonostante abbia le carte vincenti per farlo, la Repubblica si mostra incapace di tenere le redini dell’economia.

Riuniti in meno di 2 anni

Ci sono voluti 400 anni per vedere i sette regni dell’Inghilterra anglosassone diventarne uno solo, nel X secolo, mentre quasi tutti i territori dei sette stati che componevano l’Italia del XIX secolo furono riuniti in meno di due anni, tra l’estate del 1859 e la primavera del 1861. Il papa fu privato della maggior parte dei suoi territori, la dinastia dei Borboni fu cacciata da Napoli, i duchi dell’Italia centrale persero i propri troni e i re del Piemonte divennero quelli dell’Italia. A quel tempo, la rapidità dell’unificazione fu vista come una sorta di miracolo, un esempio perfetto di popolo patriota che si riunisce e si ribella per cacciare gli oppressori stranieri e i tiranni reali.

Bisogna però constatare che l’unificazione dell’Italia fu portata a termine solo da un gruppetto di patrioti, principalmente giovani del nord provenienti dalla classe media. L’unificazione non avrebbe potuto avere buon esito senza l’aiuto straniero. Le truppe francesi cacciarono gli austriaci dalla Lombardia nel 1859 e una vittoria della Prussia permise al nuovo stato italiano di annettere Venezia nel 1866.

La conquista dell’Italia del sud da parte degli italiani del nord

Nel resto d’Italia, inizialmente le guerre del Risorgimento furono più una serie di guerre civili che battaglie per l’unità e la liberazione. Giuseppe Garibaldi - che aveva partecipato alle guerre d’indipendenza nell’America del Sud – e i volontari garibaldini – le camicie rosse – hanno combattuto con valore ed eroismo in Sicilia e a Napoli nel 1860. Le loro campagne militari erano nient’altro che la conquista dell’Italia del sud da parte degli italiani del nord.

Lo stato dell’Italia meridionale, noto come Regno delle Due Sicilie, si vide quindi imporre le leggi del nord. Quindi Napoli, la città più grande dell’Italia di allora, non si sentì liberata: soltanto 80 napoletani si presentarono volontari per combattere al fianco di Garibaldi. E il popolo dell’Italia meridionale si sentì ben presto frustrato quando la città  cambiò improvvisamente il suo status di capitale di un regno indipendente, durato più di 600 anni, diventando città di provincia. Ancora oggi il suo status politico resta limitato e il PIL del sud rappresenta appena la metà di quello del nord.

L’Italia unita attraversò il laborioso processo di costruzione della nazione e diventò uno stato unitario affrontando solo in parte le questioni locali. Prendiamo per esempio la Germania. Dopo l’unificazione del 1871, il nuovo Reich fu governato da una confederazione che includeva quattro regni e cinque granducati. Invece la penisola italiana fu conquistata in nome del re piemontese Vittorio Emanuele II e poi diventò una versione extra large dell’ex regno piemontese, con la stessa monarchia, la stessa capitale (Torino) e la stessa costituzione. Con l’estensione della legge piemontese a tutta la penisola, molti dei nuovi abitanti del regno si sentirono più conquistati che liberati. Violente rivolte furono brutalmente represse nel sud negli anni 1860.

La diversità italiana era radicata nella storia

La diversità italiana era radicata nella storia e non poteva essere cancellata in pochi anni. Nel V secolo a.C. gli antichi greci parlavano tutti la stessa lingua e si consideravano tutti greci; nello stesso periodo gli abitanti dell’Italia parlavano circa 40 lingue diverse e non avevano alcun sentimento di identità comune. Questa diversità si accentuò ancora di più dopo la caduta dell’impero romano; in quel periodo gli italiani vissero per secoli la realtà dei comuni medievali, delle città stato e dei ducati rinascimentali. Questo spirito campanilistico è ancora vivo: chiedete per esempio ad un pisano come si definisce, probabilmente vi risponderà prima che è pisano e solo dopo italiano o europeo. Molti italiani lo ammettono volentieri: il loro sentimento nazionalista salta fuori solo durante i campionati del mondo di calcio, quando gli azzurri giocano bene.

Altro barometro della diversità italiana: la lingua. Al momento dell’unificazione, secondo gli studi dell’eminente linguista italiano Tullio De Mauro, soltanto il 2.5% della popolazione parlava italiano, cioè il fiorentino nato dalle opere di Dante e Boccaccio. Anche se pare una esagerazione e ammettendo che forse il 10% delle persone comprendesse il fiorentino, resta il fatto che il 90% della popolazione italiana parlava lingue o dialetti regionali che restavano incomprensibili all’interno dello stesso Paese. Persino il re Vittorio Emanuele parlava piemontese quando non usava la sua prima lingua, il francese.

Nell’euforia degli anni 1859-1861, pochi politici italiani si preoccuparono di riflettere sulle complicazioni che avrebbe generato l’unione di popoli così diversi. Massimo D’Azeglio, statista piemontese e pittore, fu uno di questi. Dopo l’unità disse: “Abbiamo fatto l’Italia, ora dobbiamo fare gli italiani”. Dunque per raggiungere questo obiettivo il nuovo governo decise soprattutto di cercare di fare dell’Italia una grande potenza in grado competere a livello militare con la Francia, la Germania e l’impero austro ungarico. Un tentativo destinato a fallire: la nuova nazione era decisamente più povera delle sue rivali.

Creare un sentimento di appartenenza alla nazione

Per 90 anni, fino alla caduta di Mussolini, i dirigenti del Paese furono determinati a creare un sentimento di appartenenza alla nazione trasformando gli italiani in conquistatori e colonialisti. Furono impiegate enormi risorse economiche per finanziare spedizioni in Africa, spesso con risultati disastrosi. Nella battaglia di Adua nel 1896, la giovane nazione fu sconfitta dagli etiopi e, in un solo giorno, fu massacrato lo stesso numero di italiani caduti in tutte le guerre del Risorgimento. Anche se il Paese non aveva nemici in Europa e non aveva bisogno di prendere parte a questo o quel conflitto mondiale, entrò in guerra, in entrambi i casi, nove mesi dopo l’inizio dei conflitti, quando il governo era convinto di aver identificato il vincitore e dopo aver ottenuto promessa di nuovi territori da annettere.

I calcoli sbagliati di Mussolini provocarono la sua caduta e misero fine anche al militarismo italiano e, allo stesso tempo, all’idea di nazione italiana. Nei 50 anni successivi alla seconda guerra mondiale il Paese è stato governato dai democristiani e dai comunisti. I primi si ispiravano al Vaticano, i secondi al Cremlino, ma nessuno di questi due partiti prese a cuore l’idea di suscitare un nuovo senso di identità nazionale per sostituire quello passato.

L’Italia del dopoguerra fu, da un certo punto di vista, un gran successo. Con un tasso di crescita tra i più alti del mondo, il Paese si distinse per le sue innovazioni in settori pacifici e produttivi come cinema, moda e design industriale. Ma i risultati economici furono incostanti e nessun governo fu in grado di ridurre le differenze tra nord e sud.

La struttura portante della nazione ha alcuni difetti

I fallimenti politici ed economici del governo non sono le sole cause del malessere che ormai minaccia la sopravvivenza italiana. La struttura portante della nazione presenta alcuni difetti collegati alle circostanze nelle quali è nato il Paese. La Lega Nord, la terza forza politica italiana, dichiarò che il 150° anniversario dell’unità del Paese, nel mese di marzo 2011, non doveva essere considerato un giorno di festa, ma di lutto. Questo partito non è solo un’aberrazione isolata. La sua xenofobia – e persino il suo razzismo – verso il sud dimostra che l’Italia non si è mai considerata un vero paese unificato.

Il grande politico liberale Giustino Fortunato aveva l’abitudine di dire, citando suo padre, che “l’unificazione dell’Italia è stata un crimine contro la storia e la geografia”. Egli pensava che le forze e le civiltà della penisola erano sempre state regionali e che un governo centralizzato non avrebbe mai funzionato. Con il tempo, fu considerato sempre più un visionario.

E, se l’Italia ha un futuro come nazione unita dopo la crisi, dovrà accettare la realtà della sua nascita problematica e costruire un nuovo modello politico che prenda in considerazione il suo regionalismo intrinseco e millenario. Se stavolta non sarà come la vecchia Italia formata dall’unione di comuni repubblicani, ducati e principati, almeno che sia uno stato federale che rispetti le caratteristiche essenziali della sua storia.

* David Gilmour è uno storico britannico. Autore delle premiate autobiografie di George Curzon, Rudyard Kipling e Giuseppe di Lampedusa. La sua ultima opera “The pursuit of Italy: A history of a land, its regions and their peoples” è stata pubblicata nel mese di ottobre

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A Parma 150 anni di storia d’Italia in 1000 foto (gallery)

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Davanti all’ingresso c’è la statua di Giuseppe Garibaldi, ma questa volta i mille alle sue spalle non sono i suoi uomini armati. L’Italia portata all’unità dall’Eroe dei due mondi è tutta racchiusa nelle stanze del Palazzo del Governatore, nella piazza centrale di Parma, nella mostra “I mille. Scatti per una storia d’Italia” (dal 14 aprile al 10 giugno 2012). Mille come i garibaldini, mille come le fotografie di grandi autori che rivelano altrettanti volti di una nazione. Un’allusione quindi voluta, come spiegano i curatori, perché proprio come i mille, anche gli scatti selezionati dagli archivi del Csac (Centro Studi e Archivio della Comunicazione) dell’Università di Parma, raccontano il percorso dell’Italia dall’unità ai nostri giorni, e proprio per questo l’iniziativa è inserita nell’ambito delle celebrazioni per il centocinquantenario dell’Unità.

Quello che la mostra organizzata dal Csac in collaborazione con il Comune di Parma propone è un percorso in cui si ricorda, si scopre, ci si perde e ci si stupisce attraverso cinque grandi temi: storie, paesaggio, ritratto, lavoro e rituali. Così la narrazione si sviluppa, tra scatti a colori e in bianco e nero, raccontando gli anni dell’Italia, quelli che si studiano sui libri di storia e di cui si fa fatica a riconoscere le immagini, così diverse dalle fotografie a cui si è abituati oggi, e quelli più recenti di cui siamo stati testimoni, che non sembrano nemmeno ancora così passati da rientrare a tutti gli effetti nella “storia”.

Ci sono i ritratti dei senatori del regno del 1861 per la prima riunione a Torino capitale, realizzati dai più importanti atelier fotografici italiani, tra cui Milano, Bologna e Palermo, ma anche da alcuni autori stranieri. Accanto all’Italia nobile e aristocratica, c’è anche quella contadina, dell’estremo Sud raccontato dai fieri volti di briganti e brigantesse, di contadini e donne con il velo sul capo nei borghi di paesini in mezzo al nulla. Nelle Storie raccontate per immagini ci sono le rivolte popolari del 1898 con gli eccidi del generale Bava Beccaris di Luca Comerio, fino alle guerre mondiali e al fascismo, con la popolazione che si trasforma nel modo di vivere e di vestire, per finire raccolta a pezzi nelle bare dopo i bombardamenti.

Altri respiri e altre suggestioni nella sezione dedicata al Paesaggio, in cui si ritrova l’Italia dei monumenti e di un nuovo modo di rappresentare il territorio di Anderson e Alinari, che si evolve e si trasforma con le pubblicazioni del Touring Club di Bruno Stefani. Si passa poi alla fase del realismo e dell’astrazione con Nino Migliori, fino all’arrivo dei media e della pubblicità che contaminano l’arte della fotografia. Nuovi spazi e nuovi modi di rappresentarli si scoprono nei fotocollage di Mario Cresci, che stacca sagome gialle da scatti di paesaggi in bianco e nero, o nelle opere di Olivo Barbieri, Mimmo Jodice e Giovanni Chiaromonte. Dal territorio alle persone il passo è breve, in un’ottica in cui uno Stato è fatto soprattutto da chi ci vive e chi ci lavora. Tra gli scatti dedicati al Lavoro si scorgono i profili delle mondine con le gambe nude, chinate sulle risaie, o i volti dei contadini piegati in campagne sterminate di Federico Patellani, o ancora gli operai in fabbrica, tra il fumo e il vapore, ritratti da Cuchi White e Mario Giacomelli. Specchio di un’Italia che evolve e cambia, ci sono poi i ritratti della collettività nella sezione Rituali: proteste operaie, contestazione giovanile, immagini della classe politica con i fotografi della “scuola romana” come Nicola Sansone. Poi le feste paesane della Campania e le grandi tragedie come il terremoto di Messina, fino ai funerali di Papa Giovanni XXIII e i personaggi della televisione come Sandra Milo, o i ritratti dei poeti Giuseppe Ungaretti e Alda Merini.

Mille fotografie che raccontano l’Italia, la sua storia e la sua identità, fatta di tanti protagonisti diversi immortalati negli scatti di grandi autori che insieme formano il ritratto di uno Stato a 150 anni dalla sua nascita.

Per informazioni: tel. 0521 218929-218669; eventiculturali@comune.parma.it; CSAC: tel. 0521 033652, csac@unipr.it

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Gli studenti ci danno la sveglia

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Italia strano Paese. Abbiamo festeggiato l’anno scorso i centocinquant’anni dell’unità, ma stenta ad emergere un vero senso di identità comune. Ho letto su Facebook un divertente post che simboleggia a mio avviso in modo sintetico ed efficace il cuore della questione: “Per gli italiani, gli italiani sono sempre gli altri”.

Quando ci assumeremo le nostre responsabilità di popolo? Ci siamo fatti governare per molti anni da un pagliaccio erotomane e corrotto che sublimava le nostre frustrazioni di maschi medi con le sue millantate attività erotiche accelerate, ininterrotte e nevrotiche. Ma lo hanno votato anche parecchie donne, cosa ancora più strana. 

Poi, pentiti di tanti eccessi, ci siamo consegnati mani e piedi legati a un banchiere severo che, dall’alto della sua presunta scienza e tecnica, ci ha messo tutti, chi più chi meno in mutande. E, agitando spauracchi di catastrofe, ha tagliato senza colpo ferire pensioni, demolito garanzie sociali, inferto colpi irreversibili a sanità, cultura e istruzione. Il tutto nel plauso pressoché generalizzato di una classe politica indegna, che continuava ad arraffare l’arraffabile, organizzando, con il denaro pubblico rubato ai servizi sociali ed al bene comune, osceni  festini e concedendosi vacanze milionarie ai Caraibi e altrove. Fino all’inevitabile intervento della magistratura, uno dei pochi settori ancora complessivamente sani di questo nostro Paese malato.

E se c’è chi protesta per questo andazzo che risulterebbe insopportabile a chiunque, è pronto il feroce manganello. Come per gli studenti che hanno manifestato venerdì scorso 5 ottobre. Una gioventù cui è stato sottratto ogni futuro dalle politiche dissennate che sono la diretta traduzione delle peggiori teorie neoliberiste e degli interessi diretti delle banche e degli altri attori finanziari, viene umiliata e percossa selvaggiamente per aver protestato.

Decisamente uno come me, che ha lottato negli anni settanta per il sindacato di polizia e ha sempre sostenuto la necessità di non contrapporsi agli agenti in quanto tali, si trova a disagio di fronte agli eccessi di questi robocop che pestano minorenni e li trascinano per strada. 

Intanto la classe politica gozzoviglia o, nel migliore dei casi, si arrovella e bisticcia su primarie, leggi elettorali, tagli ai loro stipendi e pensioni che non ci saranno mai perché, in questo caos senza senso e senza principi che è diventato la vita politica del nostro Paese, l’unica bussola valida sembrano essere, anche e soprattutto per i nostri politici, mediocri yesmen senza cultura e senza progetti, solo gli interessi immediati propri e della propria famiglia e amici stretti.

Ma così si distrugge una democrazia.

Dobbiamo quindi dire grazie agli studenti per aver salvato la dignità del nostro popolo. E augurarsi che ben presto scendano in piazza anche altri per difendere la speranza di una vita diversa da quella che ci propone oggi un governo che non sa fare altro che imporre sacrifici a quelli che i sacrifici li fanno da sempre. E anche i robocop si mettano una mano sulla coscienza e tornino ad essere cittadini consapevoli, comportandosi di conseguenza ed evitando di essere gli strumenti passivi di una repressione senza prospettive.

I giovani hanno paura del futuro, come ha detto uno dei partecipanti alla manifestazione studentesca di Roma. E in effetti un futuro gestito da Monti o da Berlusconi fa paura anche al più coraggioso tra di noi. A dirla tutta, però, non è un problema solo italiano. I giovani che manifestano in difesa del diritto all’istruzione vengono repressi un po’ in tutto il mondo, dal Canada al Cile. Cultura e sapere sono manifestamente un lusso inutile per la cricca di beoti neoliberali che governa il mondo. Del resto, sembrano dire, di che cultura credete abbiamo fatto uso noi per arricchirci alle spalle dell’umanità e del pianeta? Basta essere furbi, disporre di un ammontare adeguato di capitale e via…arraffi chi può! Avanti verso nuove privatizzazioni e si divarichi a più non posso la forbice fra pochi ricchi e moltissimi poveri! Tanto ci pensa la polizia a far tacere gli scontenti…

In Italia però, il nostro governo “tecnico”, sorretto da uno schieramento pressoché unanime di parlamentari, sembra brillare per assoluta incapacità di dare inizio perfino a una parvenza di dialogo con gli studenti. E allora si scatenino i robocop…

L’altra settimana, a piazza Tharir al Cairo stavo contemplando i bei graffiti lasciati dai rivoluzionari, che ci parlano di dignità e ribellione. Un insegnamento da ricavare dalle rivoluzioni arabe, come da ogni rivoluzione, è che un regime che basa solo o prevalentemente sulla repressione la sua sopravvivenza non può andare lontano. Perfino in Italia. Ci vediamo il 20 ottobre alla manifestazione dei lavoratori!

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Il documentario Modena, Italia, near Bologna, in anteprima al Teatro Segni

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Giovedì 1 novembre, alle ore 20.30, nell’ambito di ViaEmiliaDocFest 2012, presso il Teatro dei Segni, in via San Giovanni Bosco 150 a Modena, è in programma la prima nazionale di Modena, Italia, near Bologna di Stefano Cattini e Gualtiero Venturelli.

Un documentario in forma di viaggio (e viceversa) nell’Emilia che c’era, in quella che c’è e in quella che ci sarà, dopo i duri colpi del maggio 2012; ma anche un progetto di lavoro per i prossimi anni, in cerca della storia del tempo presente.

“Modena, Italia, near Bologna” nasce come idea di un mediometraggio da realizzare in  occasione e, in qualche modo a consuntivo, delle celebrazioni del 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia, che a Modena, più che altrove, hanno visto una grande mobilitazione del mondo delle istituzioni e della cultura e una vasta partecipazione della cittadinanza.

Ben presto, però, il progetto si è dilatato e articolato: non solo è stato realizzato un documentario, in forma di viaggio narrato lungo le strade della provincia, che abbraccia una pluralità di luoghi e una imprevista polifonia di voci, ma soprattutto è andata emergendo, nel corso della lavorazione, la possibilità di usare la videocamera e il racconto orale per intercettare la storia nel suo farsi, per cogliere i mutamenti profondi e durevoli della società – modenese, emiliana, italiana – sotto la superficie dell’apparente eterno presente nel quale tutti abbiamo l’illusione (ambizione? dannazione?) di vivere.

“Il terremoto, da questo punto di vista, ha rappresentato una dura, dolente, ma chiara lezione”, spiegano i registi, “esistono un prima e un dopo, delle cose e delle persone, malgrado l’impressione, erronea, di un’eterna sospensione (della politica, dell’economia, della cultura) nel limbo della transizione”.

Dopo la presentazione del documentario e in parallelo alla sua circolazione,  “Modena, Italia, near Bologna” proseguirà come progetto crossmediale che metterà insieme scrittura e cinematografia, spazi materiali e spazi virtuali sul web, per raccontare, senza accademismi e senza nessuna indulgenza verso gli stereotipi, il presente come storia.

Il regista, Stefano Cattini è nato nel 1966 a Carpi (Modena) dove tuttora vive e lavora come filmmaker e come docente presso scuole d’istruzione secondaria. Ha girato il suo primo cortometraggio documentario nel 2004 e ricevuto numerose selezioni nei festival con ‘Ivan e Loriana’, breve film che è all’origine de ‘L’isola dei sordobimbi’, suo primo lungometraggio. Nel 2010 ha ricevuto la candidatura al premio David di Donatello per il miglior film documentario ed è stato invitato a far parte della European Film Academy. “L’ora blu” (2012) è candidato come migliore documentario al 53° Festival dei Popoli. È fondatore dell’associazione culturale Sequence ed è docente di linguaggio audiovisivo presso vari enti.

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Unità d’Italia, a Torino le celebrazioni dei 150 anni lasciano buco di 3,5 milioni

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Tra due giorni la mostra Fare gli italiani chiuderà definitivamente i battenti. È stata una delle vetrine più scintillanti delle celebrazioni per i 150 anni dell’unità d’Italia. “La mostra più bella che abbia mai visto” commentava lo scorso maggio Roberto Saviano, che da quella struttura con Fabio Fazio ha condotto le tre puntate della trasmissione televisiva “Quello che (non) ho”. Fare gli italiani, allestimento multimediale su 150 anni di storia nazionale, è stato infatti il fiore all’occhiello di una Torino prima capitale d’Italia, emozionata e tirata a lucido per l’importante anniversario. La mostra, come molte altre iniziative cittadine, è stata gestita dal Comitato Italia 150, un ente fondato per la grande occasione dal ministero della Cultura, Regione Piemonte, Provincia, Comune di Torino e diversi soci privati. Il Comitato ha davvero pensato a tutto, dai lavori di restauro ai gadgets tricolore dell’anniversario. Ma deve aver sbagliato qualcosa nei suoi calcoli se oggi, calato il sipario, si trova a fare i conti con un mare di debiti.

Il buco di bilancio del Comitato è di 3 milioni e mezzo di euro. Dovuto a due milioni di mancati introiti per la mostra Fare gli italiani e a un contributo governativo che tarda ad arrivare. Cifre alla mano il Comitato ha speso per il ripristino e l’allestimento delle ex Officine grandi riparazioni, stabilimenti delle Ferrovie in disuso che hanno ospitato la mostra, più di 25 milioni di euro. Un’enormità rispetto agli incassi, dato che i visitatori sono stati 700mila e avrebbero dovuto pagare a testa, per avere un saldo in pareggio, circa 35 euro a testa. Alberto Vanelli, vice presidente del Comitato, ha spiegato che il problema sono stati i troppi biglietti scontati e che non c’è da allarmarsi: l’ammontare del buco per il 2012 infatti “è nettamente inferiore a quello di fine 2011, che era pari a 7 milioni 800 mila euro”.

Resta comunque lo scoglio dei fornitori. Dove trovare i soldi per chi ha lavorato ai festeggiamenti e aspetta ancora di essere pagato? Dopo la lunga attesa, la lista di allestitori e piccoli artigiani arrabbiati – ha scritto il giornale piemontese Lo Spiffero – si sta a tal punto allungando che “in qualche studio legale si sta profilando l’idea di riunire tutti i creditori addirittura in un comitato”.

Non sono però solo i piccoli ad essere sul piede di guerra. Il Comitato 150 ha infatti dovuto affrontare il problema di un’ingiunzione di pagamento da parte di Rcs Sport, che pretendeva i pagamento dei 700mila euro pattuiti per il passaggio a Torino del Giro d’Italia nell’anno delle celebrazioni. Si trattava di fondi che sarebbero dovuti arrivare dalla Regione Piemonte e che sono stati liquidati appena in tempo, il 10 ottobre, prima dei previsti pignoramenti. Secondo la fonte giornalistica il ritardo nel saldo è comunque costato alla collettività 76 mila euro in più rispetto alla spesa iniziale. Tra i fornitori arrabbiati c’è poi il Teatro Stabile di Torino, che si è rivolto ai legali per recuperare i suoi 250mila euro, guadagnati “per le attività di allestimento e intrattenimento realizzate in occasione dei festeggiamenti per l’unità d’Italia”. Vanelli intanto ha promesso: verranno pagati tutti entro l’anno.

Al momento la partita è interamente spostata sulla vendita delle ex Ogr, gli stabilimenti delle ferrovie ripristinati a spese del Comitato. Solo questa operazione, grazie alla quale la struttura passerebbe da Ferrovie alla Fondazione Crt, può consentire al Comitato di recuperare i 3 milioni e mezzo di euro e sanare i suoi conti in rosso. L’accordo tra venditore e acquirente però è lontano dall’essere raggiunto. La trattativa procede con tale fatica che il Comune di Torino ha deciso di intervenire per provare a velocizzarne la conclusione. Senza quella vendita il Comitato resta nei guai e la città rischia di sprecare uno spazio espositivo su cui sono stati fatti molti investimenti.

Lo ha spiegato, con un certo trasporto, l’assessore alla cultura del comune di Torino, Maurizio Braccialarghe, che ha definito la vendita necessaria “perché sulle Ogr non cali la notte con un conseguente degrado, per valorizzare gli investimenti realizzati, perché le Ogr rappresentano uno spazio che esiste e che è stato vissuto, avendo ospitato, oltre alla mostra, molte manifestazioni”. Dietro l’enfasi delle parole si profila infatti il rischio che lo scintillante scenario di Fare gli italiani, costato milioni di euro, faccia la fine di certe altre strutture olimpiche, oggi preda dei vandali e dell’abbandono.

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Inno di Mameli, sarà obbligatorio insegnarlo nelle scuole italiane

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L’inno di Mameli verrà insegnato a scuola. E’ legge. Lo ha deciso il Senato approvando in via definitiva il ddl che istituisce anche la “Giornata dell’Unità della Costituzione, dell’inno e della bandiera” il 17 marzo.

Non sarà un giorno festivo, ma una solennità celebrata senza effetti civili e opportunamente ricordata nelle scuole e con iniziative pubbliche allo scopo di promuovere i valori di cittadinanza e di riaffermare l’identità nazionale. Il provvedimento dispone anche che a partire dall’anno scolastico 2012-2013 nelle scuole di ogni ordine e grado saranno organizzati incontri didattici su “Cittadinanza e Costituzione” per riflettere sulla storia e il significato del Risorgimento e sulle vicende che hanno portato all’unità nazionale, alla scelta dell’Inno di Mameli, del Tricolore, e all’approvazione della Costituzione.

Il ddl è stato approvato  con 208 sì, 14 no e due astenuti. Hanno votato a favore tutti i gruppi, a eccezione della Lega nord e della senatrice del Pdl Diana De Feo. Molti senatori leghisti per protesta hanno abbandonato l’aula prima del voto parlando di un provvedimento “inutile, retorico, antistorico, ideologico e coercitivo”.

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Napolitano: “In un momento difficile ritroviamo volontà di riscatto”

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“Ritroviamo insieme orgoglio, fiducia e l’unità necessaria”. E’ l’invito del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in un messaggio per l’Unità d’Italia trasmesso da i principali telegiornali aggiungendo che è necessario “non perdere lo spirito costruttivo e il senso di responsabilità”. Nella Festa dell’Unità d’Italia, il 17 marzo, “nel 2011 in occasione del 150esimo anno ci sono state innumerevoli celebrazioni dalle più solenni, nazionali e internazionali, alle più semplici nelle scuole, nelle associazioni, e nei comuni con vaste e calorose adesione di giovani e cittadini. E’ molto importante non dimenticare quello che esse hanno significato, gli italiani sono consapevoli di ciò che di meglio è stato fatto nella nostra storia”.

“Quel che non va nello Stato, nelle istituzioni, nella politica” va “modificato e riformato” dice il capo dello Stato. ”Siamo oggi noi italiani credo che lo sappiamo bene, di nuovo in un momento difficile e duro, per l’economia che non cresce, per la disoccupazione che aumenta e dilaga tra i giovani, per il Mezzogiorno che resta indietro. Ritroviamo il senso dell’unità necessaria. Unità, volontà di riscatto, voglia di fare e stare insieme nell’interesse generale, senza dividerci in fazioni contrapposte su tutto, senza perdere spirito costruttivo e senso di responsabilità”. 

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Dov’è la vittoria? Maurizio Cucchi e “il cammino di Darwin al contrario”

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Poeta, narratore, critico letterario e traduttore di autori francesi come Stendhal, Mallarmé, Flaubert, Balzac e Prévert, Maurizio Cucchi è anche un attento osservatore della realtà italiana sulla quale ha scritto diversi articoli su molti giornali.

L’inno d’Italia è un testo incomprensibile almeno nella parte più conosciuta e cantata. Un poeta come lei ha un verso per descrivere questo paese?

Io non ho un verso mio però c’è un libretto di Giancarlo Majorino che è un mio amico ed è un poeta importante che si intitola La dittatura dell’ignoranza. Devo dire che il titolo è uno slogan che calza alla perfezione. L’ignoranza non solo è presente ma lo è in modo tronfio, fiera di se stessa, valorizzata, promossa in tutte le forme.

Secondo lei qual è la malattia dell’Italia?

Ci sono tante cose. A parte questa ignoranza che è stata diffusa soprattutto dai media e dalle televisioni a me sembra che una delle cose che mancano al nostro paese sia il senso forte della comunità e un senso della dignità e del decoro. Noi spesso critichiamo i francesi e li tacciamo di sciovinismo. Però loro hanno un’identità nazionale forte che naturalmente deriva da secoli di storia molto più numerosi dei nostri. Da noi sono passati centocinquant’anni e sembra che l’identità nazionale praticamente non esista. Penso che questo sia il sentimento che ci vorrebbe per migliorare tante cose. La furbizia non è necessariamente una virtù. Purtroppo, poi, la nostra cultura di ricerca viene sommersa dai surrogati. Ogni forma espressiva ha il suo: il poeta ha il cantautore e così il musicista. Il cantautore è diventato l’icona pensante del varietà contemporaneo. D’altra parte la funzione espressiva in un contesto di varietà non può che essere affidata a uno che canta canzonette. E ancora: la musica classica è rappresentata da un finto musicista, i giornalistici si definiscono scrittori e storici… Il surrogato trionfa e si arriva al punto di proporre un cantautore al premio Nobel della letteratura.

Leopardi ha scritto: “…Le classi superiori d’Italia sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni. Il popolaccio italiano è il più cinico de’ popolacci”

Direi che oggi è molto più attuale di quanto non potesse essere quando io ero ragazzo. Dopo la guerra c’era una reale volontà di ricostruzione e un senso del servizio al bene comune. Gli uomini sono sempre stati portati al potere, comunque cercavano di incidere con delle idee che potevano essere condivise o meno ma che non erano rivolte essenzialmente al proprio interesse personale. C’era un senso della necessità di costruire qualche cosa di importante e, piano piano, tutto questo si è sgretolato. Se noi confrontiamo i discorsi dei politici ce ne rendiamo ben conto. A parte il fatto che Leopardi parla del cinismo ma qui non c’è neppure il cinismo, mi sembra che i politici ormai siamo diventati dei comici della televisione. Quando vedo queste risse e questi discorsi di basso profilo mi vergogno e dico: ma questi sono i nostri rappresentanti? Partecipano al varietà come attori del varietà stesso? Io vorrei che fossero proibite le partecipazioni dei rappresentanti eletti dal popolo ai talk-show. Ricordo quando ero ragazzo che c’era Tribuna Politica. Adesso vanno ovunque perché sono comici della televisione e come tali sono recepiti dal popolo che li valorizza come buoni o cattivi comici.

La corruzione è un fenomeno dilagante che non s’arresta. Agli italiani manca il senso del bene comune?

Premetto che io sono orgoglioso di essere italiano. Però, con le eccezioni del caso, l’italiano dice: quello lì è un ladro e lo dice con un vago sottofondo di stima se il ladro non viene catturato. Questo produce poca dignità morale e poco decoro nazionale e questo purtroppo è ciò che vedono anche gli stranieri. Sanno che non siamo stupidi ma non si fidano e forse hanno ragione.

Da anni sembra prevalere l’egoismo a tutti i livelli. Quando a suo giudizio è stato messo in crisi il valore della solidarietà?

Una volta ho sentito un politico cattolico di formazione dire che in condizioni di difficoltà complessiva non possiamo distribuire solidarietà. La solidarietà è il primo valore di una società che voglia essere civile, non ci dovrebbe essere bisogno di nessuna ideologia per promuoverla e sentirla come valore primario. D’altra parte se c’è uno che cade per strada la gente si ferma, c’è un senso di partecipazione. È chiaro che se poi si sdoganano dei disvalori come valori, tipo la competitività estrema da cui consegue la sopraffazione dell’altro come virtù, è chiaro che la solidarietà viene recepita come una forma di ingenua generosità arcaica.

Lei si sente italiano oppure in questo paese fa fatica a riconoscersi?

Mi sento italianissimo e sono orgoglioso. Avendo sempre dedicato la mia vita alla letteratura dico che questa è forse la prima cosa che crea un paese come il nostro. Noi leggiamo i siciliani del 1200 che scrivevano in italiano. È vero che dicono che la gente parlava il dialetto ma c’è questa tradizione letteraria fondata sulla lingua e la lingua è molto importante per differenziarsi dalle bestie. Ricordo che una volta ho partecipato alla trasmissione “Uno contro tutti” e c’era Bossi che disse ‘Ma la lingua è proprio così importante?’ Risposi: se vuoi fare un cammino di Darwin alla rovescia…

Milano può tornare ad essere la capitale morale del Paese oppure si è persa?

Sono molto cambiati i tempi. Milano sta dentro il mondo che la condiziona. È chiaro che una persona della mia età tende a privilegiare l’idea del passato ma a me piacciono anche tante cose del presente e vorrei che i valori del passato non venissero buttati via con gli errori. Credo che nel mondo globalizzato sia molto difficile per una città avere ancora una funzione di traino, al di là del fatto che la moneta cattiva scaccia quella buona e noi ce ne siamo accorti. Complessivamente trovo che sia ancora una città civile, oltre che molto bella anche se i milanesi non lo sanno.

Che idea ha dei giovani?

Sono preoccupato quando vado alle colonne di San Lorenzo e vedo centinaia di ragazzi ubriachi con in mano la bottiglia della birra. Quello che mi stupisce è questa omologazione depressa di cui loro non sono colpevoli perché sono pieni di vuoto che cercano di riempire con una falsa socialità e con delle sostanze. Una ragazza una volta, alla mia osservazione che i giovani dicono sempre io e poi fanno tutti le stesse cose, mi ha risposto ‘le facciamo con la convinzione di averle scelte’. Una cosa che il giovane ha sempre avuto di buono è quella di essere bastian contrario. Oggi anche nel linguaggio usano solo parole fecali e sessuali destituite di semantica.

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Sud, con una selezione degna della classe dirigente sarebbe una ‘terra bellissima’

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Il recente intervento di Roberto Saviano ad Annozero di Michele Santoro merita un ascolto attento e qualche necessaria sottolineatura. Saviano ha parlato anche di Sud, spiegando, assai chiaramente, una delle ragioni per cui la cosiddetta Questione meridionale non trovi, finalmente, un suo epilogo positivo.

L’autore campano ha evidenziato il problema essenziale della selezione delle classi dirigenti meridionali. Si tratta di una generalizzazione, ovviamente, ma permette di spiegare come mai certi divari si siano protratti, senza soluzione di continuità, tra Nord e Sud, per tutto il secolo e mezzo di storia unitaria. Parlando della classe dirigente meridionale, Saviano dice una cosa chiara e altrettanto grave. Preferisco citare le parole dello scrittore:

Spesso si viene scelti per la lealtà che si giura, non per capacità, per responsabilità, per creatività e per innovazione. Io ti scelgo perché so che tu mi sarai leale. E perché so che tu, senza di me, sei fuori dai giochi. Se si continua a selezionare così la classe dirigente al Sud, non ci sarà nessun nuovo percorso”.

Uno scenario tanto inquietante quanto verosimile, perfettamente compatibile con una gestione prettamente partitocratica del potere. Per tutti coloro che sono emarginati da questa modalità di gestione del potere l’unica alternativa è l’emigrazione. Occupi un ruolo se sei leale a un patto. Il termine patto, o giuramento, viene dal greco antico òrkos. La liberazione dal patto è indicata in lingua italiana, dalla parola esorcismo. Occorre esorcizzare, dunque, lo status quo, in cui si ignorano o si derubricano sistematicamente le questioni che attanagliano il Sud, danneggiando, di riflesso, tutto il Paese.

I dati statistici, spesso discussi su questo blog, non troveranno mai un’inversione di tendenza se, come dice ancora Saviano: “Il problema vero è che il Sud non interessa più. […] Il problema Sud è già risolto con l’emigrazione. […] Il Sud è ignorato dalla politica italiana”. “L’unica strada è andare via”, mancando il soddisfacimento delle minime sogli dei “diritti minimi”, e quindi le regioni del Sud non pesano più.

L’emigrazione continua, oggi, ad essere la valvola di sfogo demografico che consente di disinnescare le inevitabili tensioni sociali che scaturirebbero dalla permanenza di chi è costretto a cercare lavoro fuori. Al Nord, come all’estero. Ho trovato una conferma a quanto diceva Saviano nelle parole più datate del lucano Ettore Ciccotti, che scrisse un mirabile articolo sull’emigrazione dal Sud, nel 1912. L’emigrazione, dopo l’Unità d’Italia, era assurta a “fenomeno centrale della vita meridionale”, cito le sue parole. “La mancanza della pressione di una popolazione numerosa, poi, […] toglie l’occasione, l’impulso e la forza a quella reazione contro l’ambiente arretrato che più di tutto potrebbero costringerlo a rinnovarsi. L’emigrazione funziona nel Mezzogiorno, in mancanza di salda organizzazione, come uno sciopero immenso, colossale. L’America, anzi, è l’Aventino di quei lavoratori”. Se ai tempi di Ciccotti l’emigrazione riguardava prevalentemente contadini, riguarda oggi laureati e plurititolati, coinvolgendo nel fallimento il tessuto produttivo e tutto il sistema formativo.

Sento, tuttavia, di poter essere ottimista. La conoscenza dei mali che affliggono un territorio è il passo propedeutico alla cura degli stessi. In parallelo, un nuovo fermento culturale e civile va sorgendo nel Sud, specialmente tra le nuove generazioni, in cui cresce la consapevolezza, l’attaccamento al territorio nelle sue declinazioni ambientali e culturali. Sarebbe oggi più difficile occultare i fusti di veleni di varia provenienza sotto la superficie dei fondi agricoli.

Il Sud cambierà. Sarà realizzata la profezia di Paolo Borsellino: “Un giorno questa terra sarà bellissima!”.

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Divario Nord-Sud: tutto iniziò con l’Unità d’Italia. L’incapacità ‘genetica’ non c’entra

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Ancora una volta, gli scritti dei grandi meridionalisti del passato trovano un riscontro perfettamente congruente in studi e ricerche attualissimi. Francesco Saverio Nitti, politico lucano e grande esperto di finanze, ne “Il bilancio dello Stato dal 1862 al 1897” sostenne che l’Italia del Regno delle Due Sicilie portava in dote “minori debiti e più grande ricchezza pubblica”, fino a ricordare che nel primo periodo si ebbe un notevole “esodo di ricchezza dal Sud al Nord”.

Dunque, al contrario di quanto – purtroppo – si continua a leggere e dire a sproposito circa l’incapacità – persino genetica – delle genti del Sud di produrre sviluppo e progresso, lo scenario senza veli e pregiudizi è ben diverso: gli Stati preunitari versavano in condizioni tra loro affini, se non congruenti. La grande soluzione di continuità che innescò la creazione e l’accrescimento del divario tra Nord e Sud del paese furono proprio il processo di unificazione risorgimentale e, soprattutto, le successive politiche in materia di industrializzazione e infrastrutturazione.

In “La finanza italiana e l’Italia meridionale”, ancora Nitti: “Nei venti anni che seguirono l’unità, le più grandi fortune furono fatte quasi esclusivamente dagli imprenditori di opere di Stato: e fra essi non vi erano quasi meridionali, come un documento parlamentare, presentato dall’on Saracco, dimostra a evidenza. La situazione della Valle Padana ha reso più facile la formazione delle industrie, cui la politica finanziaria dello Stato, in una prima fase, e in una seconda le tariffe doganali, hanno preparato l’ambiente; di quasi tutte le industrie di cui lo Stato italiano negli ultimi trenta anni ha voluto assumere la protezione, nessuna quasi è meridionale: dalla siderurgia allo zucchero, dalle industrie navali alle industrie tessili, ecc., tutto è nelle mani degli stessi gruppi capitalistici”. 

E questa è, come si suol dire, storia nota. Cosa oltremodo interessante è scoprire come recenti ricerche condotte dai ricercatori Vittorio Daniele (UniCz) e Paolo Malanima (Cnr) abbiano portato nuovi riscontri scientifici a quanto sosteneva Nitti. Un loro articolo molto interessante del 2013riporta una indagine accurata inerente la nascita e l’evoluzione delle disparità regionali nel nostro paese. Il divario economico tra Nord e Sud come noi lo conosciamo nacque solo alla fine dell’Ottocento. Nel 1861 tutto il paese unificato presentava prevalentemente una economia preindustriale (64% di lavoratori in campo agricolo, la restante parte suddivisa tra industria e servizi). I due scienziati riportano una assenza di differenze significative nello sviluppo industriale, per tutto il primo decennio successivo all’unificazione. Il grafico che riporto, (con il consenso degli autori), mostra chiaramente come il numero dei lavoratori impiegati nell’industria fosse sopra la media nazionale in Lombardia, Liguria, Emilia-Romagna, Toscana, Campania e Sicilia. Già nel grafico che fotografa la situazione del 1911 si assiste alla formazione del “triangolo industriale” in Nord-Ovest.

sviluppo ottocento

Nel 1891, solo il 19% dei lavoratori era impiegato nell’industria (21% al Nord e 16% al Sud). Dunque, il divario industriale era ancora esiguo su base territoriale. Vi erano regioni più e meno industrializzate in tutte le zone del Paese. Nell’articolo viene specificato che la prima grande ondata di emigrazione coinvolse oltre 5 milioni di cittadini italiani provenienti prevalentemente da Veneto, Venezia Giulia e Piemonte, (“relatively underdeveloped areas of the North”). Dopo il 1900, prevalse il numero di emigranti provenienti dal Sud. La concentrazione di industrie nel Nord del Paese si accentuò nel periodo tra le due Guerre. I dati relativi al reddito pro capite sono congruenti con quelli inerenti l’occupazione nell’industria.

industria Nord-Sud

L’immagine di sopra mostra come, rispetto alla media nazionale, il Gdp (cioè Pil) su base regionale era distribuito in modo diverso da come avremmo potuto immaginare: al Sud solo la Calabria e la Basilicata presentavano un Pil pro capite inferiore alla media nazionale, nel 1891. L’ultima immagine che ho tratto dal lavoro di Daniele del 2013, mostra in modo palese come la situazione sia drammaticamente peggiorata in termini di polarizzazione “geografica”, nel corso dei decenni. A 150 anni dall’unificazione, lo scenario è quello che si legge, senza bisogno di commenti, nel grafico sottostante.

divario Nord Sud 2010

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